Amidon, autore de "Il capitale umano": grazie al web oggi i giovani sono più solidali

Amidon, autore de "Il capitale umano": grazie al web oggi i giovani sono più solidali
di Massimo Arcangeli
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Martedì 26 Agosto 2014, 15:25 - Ultimo aggiornamento: 30 Agosto, 15:31
Oggi mi sento pi ottimista sui giovani di dieci anni fa. Forse perch ho visto crescere i miei figli, che erano teenager e ora sono diventati giovani adulti: sembrano meno ossessionati dagli orpelli materiali.



A un decennio di distanza dall'uscita di Human Capital, adattato per il cinema da Paolo Virzì (Il capitale umano) e apparso in traduzione italiana (nel 1995) presso Mondadori, abbiamo chiesto a Stephen Amidon di riprendere alcuni dei temi allora affrontati, anche per valutarne la tenuta nel tempo, e di ampliarli. Amidon ne ha parlato a Fontechiari, uno dei nove paesi coinvolti nel “Festival delle Storie”.

Human Capital era ambientato in una pigra cittadina del Connecticut, il film di Virzì in Brianza. Realtà urbane che s'incrociano, da qualche parte, o scorrono solo parallele?

«Sono due geografie “immaginarie” che hanno molto in comune. Esiste d'altronde un’ossessione generale relativa alle cose materiali, così come una generale persuasione che lo status sociale sia determinato dagli emblemi della ricchezza, come il fatto di possedere una piscina o un’automobile di lusso. Una convinzione che si esprime in molti modi diversi: c'è chi iscrive i propri figli a una scuola privata anche se non può permetterselo; o chi attribuisce valore a un vecchio teatro solo se può pensare di trasformarlo in una serie di appartamenti o di negozi di lusso. Le differenze regionali stanno peraltro sparendo: il mondo si sta sempre più trasformando in un grande centro commerciale».

Quanto e cosa sopravvive ancora del “capitale umano”? I cinici e al tempo fragili giovani ritratti nel libro sono più o meno gli stessi di oggi? L'avidità (“greed”, nel romanzo) è ancora una valida chiave interpretativa della generazione attuale?

«Per quanto possa sembrare strano i miei sentimenti riguardo ai giovani si sono evoluti col tempo. Oggi sono meno sconfortato di una volta. Forse, lo ribadisco, è perché ho visto i miei figli passare all’età adulta. Ora sembrano meno ipnotizzati dai gadget, meno disposti a farsi “legare” dal potere. Credo che in parte ciò sia dovuto a Internet. I giovani sviluppano le loro reti, che possono renderli immuni al nonsense degli adulti o dei “vecchi”».

In una recente intervista ha però dichiarato che quello attuale è un mondo nel quale è difficile essere giovani. Perché? Ed è così ovunque?

«I giovani sono attualmente consapevoli delle pressioni e delle responsabilità proprie dell’età adulta come della disastrosa situazione del pianeta, tutte cose che gli scarichiamo addosso. Credo, anche per questo, che oggi essere giovani sia difficile dappertutto, anche se in alcuni posti è ovviamente più difficile che in altri. Preferirei essere giovane nel Connecticut o in Brianza, anziché a Gaza o in Somalia».

Qualcuno, a proposito della crisi economica e finanziaria dalla quale l'Europa stenta a uscire, che è anche una crisi di idee e di valori, ha ricordato la grande crisi americana del 1929 e chi l'ha raccontata. C'è qualcosa dei romanzi della grande crisi, come Mildred Pierce di James Cain, in “Human Capital”? E pensa che quanto è avvenuto all'indomani della Grande Depressione, con il “risorgimento” culturale americano, le grandi trasformazioni sociali che l'accompagnarono, la letteratura e il cinema di denuncia del “capitale disumano”, possa essere una buona previsione per il nostro immediato futuro?

«Mi piacerebbe rispondere di sì, ma ho i miei dubbi. Non vedo affiorare, dalla recente crisi finanziaria e dai nuovi scenari di guerra, una letteratura e un cinema di protesta paragonabili a quelli di allora (o a quelli del tempo del conflitto in Vietnam), ma forse proprio qualche giovane artista è in attesa di far sentire la sua voce. Quanto a Cain (o a Steinbeck, o anche a Theodore Dreiser), sono autori che leggo molto attentamente perché sono nelle mie corde, anche se cerco di non emulare nessuno scrittore in particolare».

C'è una forte vocazione etica nei suoi lavori. Se c’è un sostantivo al quale mi sentirei oggi di abbinare l’aggettivo etico è bellezza: una bellezza etica come idea di un sistema di valori nei quali si è disposti ad ammettere l’impronta del genio, qualunque sia la sua fede o il colore della sua pelle. Forse la bellezza non salverà il mondo, come pensava il principe Myškyn nell’Idiota di Dostoevskij, ma non ce n'è troppo poca se vogliamo un mondo diverso?

«Verissimo. Dostoevskij è stato dolorosamente afflitto da epilessia, ma è stato anche in grado di dirci che possiamo aspirare ad alcune “condizioni di fuga” che ammettono una bellezza non raggiungibile con sforzi o impegni finanziari, o attraverso aggressioni o “vittorie”. Il sublime non è difficile da trovare se sappiamo osservare. E costa molto meno del Prozac».

(ha collaborato Valeria Noli)
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