CANNES Una lavorazione interminabile, un risultato straordinario, un’accoppiata che sulla carta era pura follia: nessuno al mondo poteva sembrare più lontano dal cinema di arti marziali di Hou Hsiao Hsien, il sommo regista taiwanese di Città dolente (leone d’oro a Venezia 1989), Il maestro di marionette, Millennium Mambo. Celebre per lo stile inarrivabile e per la lentezza rarefatta e insieme densissima dei suoi film “da festival”, adorati dai cinefili più esigenti ma non esattamente per le grandi platee.
E in effetti The Assassin è proprio il risultato dell’incontro fra due mondi lontanissimi che produce un film squisito e stupefacente. Semplificando molto, se nei “wuxiapian” (il “cappa e spada” cinese) l’azione è l’essenziale, Hou integra ai combattimenti, ai duelli e agli agguati il paesaggio.
Boschi, colline, rupi, nebbie, alberi in fiore, radure: non c’è scena in cui la Natura non inquadri e ridefinisca l’azione e i sentimenti dei personaggi.
Per lo spettatore occidentale è come fare un viaggio intergalattico. Scene, costumi, cibo, armi, architettura, usi domestici e coniugali, assetto politico, rapporti di potere... Tutto è immensamente esotico ma a quanto pare accuratissimo: il regista si è documentato a lungo consultando la rigogliosa produzione narrativa dell’epoca e gli studi storici.
Ne esce un film di struggente bellezza che ha incantato gli spettatori di Cannes ma è lontano un milione di miglia dal gusto arrembante e globalizzato di questi anni (e dal festival di questo 2015, mai così in cerca del consenso facile). Piacerà anche alla giuria dei fratelli Coen? Si accettano scommesse... Ma non è vietato sognare.
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