Laura Morante abbandonata ne “Il sole negli occhi”: «Che fatica essere genitori»

Laura Morante abbandonata ne “Il sole negli occhi”: «Che fatica essere genitori»
di Valentina Tocchi
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Venerdì 30 Gennaio 2015, 19:53 - Ultimo aggiornamento: 4 Febbraio, 10:44

«Raccontare storie di immigrati è fondamentale per me. Noi italiani abbiamo dimenticato di essere stati migranti noi stessi, e la cosa più terribile è che nelle attività di accoglienza degli immigrati ci sia stato spazio per la corruzione».

Così Laura Morante, occhiali scuri e gli inconfondibili capelli corti raccolti, ha presentato l’ultimo lavoro per la tv, il tv movie “Il sole negli occhi” diretto da Pupi Avati. La fiction, che verrà trasmessa su RaiUno lunedì 2 febbraio, racconta la storia di un’avvocatessa di successo, Carla Astrei, che in seguito all’abbandono del marito inizia una straordinaria esperienza che la metterà in contatto con un piccolo profugo siriano, un bambino chiamato Marhaba che sullo schermo verrà interpretato da Amor Faidi. Nell’evolversi della storia - una storia forte e struggente molto voluta da Pupi Avati e dal fratello Antonio, che del film è produttore, e nella quale recitano anche Michele La Ginestra, Lina Sastri e Daniela Poggi - Laura Morante svilupperà un rapporto sempre più stretto con il piccolo.

Se in tv vedremo la Morante diventare sempre più “mamma” del piccolo profugo, nella vita l’attrice è invece in procinto di dare alla luce un nuovo progetto cinematografico che la vedrà impegnata - per la seconda volta dopo il fortunato esordio con il film Ciliegine – nel ruolo di regista.

Laura, in tv proporrà un ruolo di una donna abbandonata dal marito e con un grande desiderio di maternità. Come è stato calarsi in questo personaggio?

«Il ruolo della donna abbandonata o alle prese con un rapporto in crisi non mi è nuovo. In questo caso il mio personaggio è anche alle prese con un desiderio di maternità che non si è ancora realizzata e che, giorno dopo giorno, la legherà sempre più al piccolo di cui diventa sostanzialmente una “madre” anche se il rapporto poi vivrà varie vicissitudini. È stato un onore per me, proprio in questo momento, raccontare anche di come sia possibile, in nome dell’amore, abbattere qualunque tipo di barriera culturale, religiosa o etnica tra due persone».

Poche settimane fa sullo schermo è stata trasmessa, con grande successo di pubblico, la vera storia di Franco di Mare che nel 1992 ha adottato una bambina della ex Jugoslavia. Che idea ha dell’adozione?

«Io ho adottato.

Alcuni anni fa ho adottato un bambino russo, Stiopa, che ora ha otto anni».

Nella vita Lei è madre anche di Eugenia Costantini e Agnese Claisse, che hanno seguito le sue orme di attrice. È diverso essere genitori di un figlio naturale e di uno adottivo?

«Essenzialmente è difficile essere genitori e soprattutto penso che sia necessario avere il coraggio di “essere detestabili”. Essere genitori significa ogni tanto rischiare di non piacere ai propri figli».

Come madre ha avuto problemi ad essere detestabile con i propri figli?

«Penso che la mia generazione si sia sentita molto giudicata dai figli e per paura di questo giudizio abbia avuto il desiderio di “piacere” ai propri figli, facendo a volte dei disastri. Bisognerebbe uscire da questa idea. Non è buono, non è “sano” tentare di piacere troppo ai propri figli».

Il regista Pupi Avati ha detto che Lei ha portato molto della sua esperienza personale in questo personaggio, e che questo ha dato un valore aggiunto al film. Quanto c’è di Lei nel personaggio di Carla?

«Sicuramente si porta sempre qualcosa di sé in un personaggio. Se ho dato qualcosa di mio al film sono sicura di averlo fatto inconsapevolmente, come è giusto che sia. A parte questo ho amato essere diretta da un regista come Pupi Avati, con cui avevo già lavorato altre due volte».

Avati, con il quale siete al terzo lavoro fatto insieme, ha però confessato che nel primo film non vi eravate andati subito a genio. Cos’era avvenuto?

«Pupi ha sintetizzato così un evento per il quale io non avrei dato questa definizione. In realtà eravamo in America sul set del primo film e litigammo per l’albergo in cui alloggiavamo».

In che senso?

«Eravamo alloggiati in un albergo posto in un crocevia e arredato con degli animali impagliati. Io, che sono una persona molto ansiosa, mi sentivo a disagio per l’atmosfera cupa e gli chiesi di cambiare albergo. Non so per quale motivo Pupi si offese moltissimo. Ma oltre a quel diverbio non avemmo alcun problema».

Nei prossimi mesi inizierà a girare il suo secondo film da regista, che si intitolerà Assolo. Ama più dirigere o farsi dirigere?

«Entrambi. Per fare l’attore bisogna avere le spalle molto larghe perché è un mestiere che rende estremamente vulnerabili e che incide molto sulla psicologia della persona, molto più di quanto non si pensi. Come regista provo una profonda gratitudine per gli attori e sono agevolata dal fatto di capire molto bene le loro esigenze e di aver avuto tante ottime esperienze con loro».

È insolito che i registi amino gli attori?

«Molti bravi registi non li amano. Alcuni ne hanno paura o comunque non li capiscono. Di Pupi Avati tutto si può dire tranne che non ami gli attori».

In questo lavoro interpreta un ruolo di una donna in crisi, affermata nel lavoro ma fondamentalmente sola. Nella vita invece Lei sembra vivere felicemente in una famiglia allargata, mantenendo ottimi rapporti i suoi ex compagni, il regista Daniele Costantini e l’attore George Claisse. Come riesce?

«Sono abbastanza facilitata dal fatto che non temo i conflitti. Non mi spaventano le situazioni complicate o in cui è necessario confrontarsi, mentre le situazioni troppo pacificate non mi stimolano. Amo i rapporti dialettici che fanno crescere».

Essere contemporaneamente attrice, madre, moglie non deve essere facile. Si può fare bene tutto?

«Credo che il segreto sia non identificarsi con nessuno di questi ruoli. Nella vita stessa bisogna evitare di imprigionarsi in un ruolo, sia quello dell’avvocato, dell’attore, del padre o della madre. Una persona, un essere umano, è qualcosa di infinitamente più grande dei ruoli che si trova a impersonare e non bisogna dimenticarlo».

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