Una lettera (quasi) impossibile che ci porta in uno dei generi più rari e fraintesi di questi tempi. Il cinema fantastico. Quello che non mostra quasi nulla ma fa immaginare di tutto. Quello che affonda le radici in una lunga tradizione del cinema e della letteratura, in America come in Europa. Quello che non vive di creature mostruose o di immani catastrofi ma di vibrazioni impalpabili, presenze invisibili, segni indecifrabili.
Come quelli che poco a poco si manifesteranno ai due ex-coniugi, tra le rocce e i canyon, il motel e la piscina, perché l’appuntamento prevede che mamma e papà trascorrano lì un’intera settimana. In un gioco a rimpiattino tra realtà e finzione che non esclude rimandi al vecchio Ai confini della realtà, o a David Lynch. Ma passa anzitutto per la scelta di battezzare i personaggi proprio Isabelle e Gérard, e di farne due attori.
Giocando al contempo sulla nostra memoria di spettatori (c’è perfino una coppia di fan che rompe le scatole a Depardieu nel motel...). E sulla disponibilità dei due protagonisti a mettersi in gioco. Magari aggirandosi a torso nudo per buona parte del film, come fa il pantagruelico Gérard. Trascinandosi dietro un fisico ormai fuori controllo, debordante, come una storia troppo impetuosa che si fatica a sistemare dentro un racconto.
Come se quel corpo contenesse tutte le vite immaginate, tutti i personaggi interpretati, tutte le possibilità sfiorate in un’esistenza.
E ora chiedesse un’ultima volta attenzione. Come quel figlio non abbastanza amato. Che anche da morto riesce a riunire i due genitori e a trascinarli in quel luogo assurdo e implacabile. Un luogo propizio alle verità e alle rivelazioni. Ribaltato, fin nel titolo, da uno dei film più curiosi e inattesi del concorso, che conferma il talento sghembo e irridente di Guillaume Nicloux.
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