Africo, Italia: Munzi racconta il suo film girato in Aspromonte

Una scena di Anime nere, in concorso a Venezia
di Fabio Ferzetti
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Domenica 24 Agosto 2014, 17:12 - Ultimo aggiornamento: 28 Agosto, 16:56
Tre fratelli accomunati da un destino che sa di tragedia. E un luogo che tutti citano ma pochi conoscono davvero. Africo, borgo sperduto nel cuore dell’Aspromonte. Africo, il paese che nella cronaca quotidiana è spesso semplicemente sinonimo di ’ndrangheta. Africo, la città “doppia” in cui sembrava impossibile girare un film. Anche se è proprio ciò che ha fatto Francesco Munzi con Anime nere, in concorso a Venezia, dove Munzi aveva esordito nel 2004 col film-rivelazione Saimir, mentre il successivo Il resto della notte era a Cannes.



Tre film in dieci anni. Il ritmo di un autore rigoroso, che fa lunghe ricerche prima di girare. Anche se stavolta tutto nasce dal libro omonimo di Gioacchino Criaco (ed. Rubbettino), scrittore e giornalista che ad Africo è nato davvero.



«Del romanzo di Criaco mi ha colpito subito la visceralità», dice Munzi. «Si sente che parla di storie vissute sulla propria pelle. Leggerlo era come immergersi in un’Italia ignota, geograficamente ai margini ma centrale nella nostra storia non solo criminale. Il terrorismo, l’eversione di destra, la stagione dei sequestri, oggi il traffico mondiale di droga... l’Aspromonte è un crocevia incredibile. Tanto che ho pensato a lungo di fare un documentario, non un film».



E poi?

«Poi ho capito che la chiave per entrare in quel mondo e vincere le diffidenze sia mie che loro, degli abitanti, era proprio la messinscena. Per raccontare le “anime nere”, criminali indipendenti dai grandi clan, ma costretti a farci i conti, dovevo lavorare sulla finzione. Così ho dato un seguito alle storie dei tre fratelli di Criaco. Lui li racconta ventenni. Io li ritrovo maturi ma ancora invischiati in un passato che li segna, malgrado la diversità delle loro scelte. Questa è stata anche la molla che ha spinto il paese ad aprirsi, a seguirmi, cogliendo una possibilità forse inedita di autorappresentazione. Non ero più il solito cronista di nera che arriva, scrive il pezzo e se ne va. Ad Africo ho passato un anno e mezzo, prima di girare. Piano piano, anche grazie a Criaco, sono entrato nelle loro case, ho capito che i confini tra bene e male non sono sempre così netti».



Peppino Mazzotta è l’imprenditore-criminale che vive al Nord, il crimine in giacca e cravatta. Marco Leonardi il narcotrafficante che finanzia anche le attività del fratello. Poi c’è Fabrizio Ferracane, il capraio, l’unico rimasto al paese, che coltiva un suo sogno di legalità e riconciliazione. Ma accanto a questi tre attori ci sono molti non professionisti trovati sul posto...

«Infatti. Il figlio ribelle, Leo, si chiama Giuseppe Fumo e viene da poco lontano. Altri sono proprio di Africo, come molti carpentieri, autisti, maestranze. Noi poi non avevamo grandi mezzi. Non abbiamo portato in Aspromonte il circo del cinema. Anche questo è servito. Girare sul posto, usando il loro dialetto, era fondamentale. Africo è un mondo a parte anche perché è diviso in due. C’è Africo Vecchio, sulle montagne, abbandonata dopo l’alluvione del ’51. È lì che i tre fratelli cenano con i membri del clan a cui chiedono protezione. Ed è sempre lì che all’epoca i caprai nascondevano i personaggi sequestrati. Poi c’è Africo Nuovo, moderno, sul mare, che sembra Beirut. Loro stessi non a caso si percepiscono come colonia».



In che senso?

«Parlano di sé come della Gaza d’Italia e dei piemontesi come invasori. Ma è una vecchia storia, che in parte racconta già Corrado Stajano nel suo bellissimo libro. Dopo l’alluvione Africo Nuovo era una specie di ghetto abitato da deportati, un luogo ad alta concentrazione di povertà e criminalità. Su questo sradicamento è fiorita una certa immagine. Gli abitanti di Africo Nuovo erano quelli che avevano fama di saper rubare e sparare meglio. Per cui anche oggi il sentimento antiunitario è molto diffuso. E spesso crea alibi al crimine. C’è una fiorente letteratura di cui si ha scarso sentore nel resto d’Italia ma che lì è popolarissima. Tutto questo magari nel film non si vede, ma è servito a noi per conoscere i personaggi, sapere come la pensano. Con l’aiuto costante di Criaco e di un altro sceneggiatore e editore calabrese, Fabrizio Ruggirello, che purtroppo è morto all’improvviso, senza vedere il film finito».



Libro e film raccontano storie vere?

«No, sono un collage, una finzione nutrita di personaggi e esperienze reali. Ma a me interessava quel tipo di verità umana. La prima cosa che colpisce conoscendo questi personaggi è il loro attaccamento alla terra e alla tradizione. Magari vivono in Australia o in Lombardia, fanno tutt’altro, ma sono come camaleonti. Se li incontri a Milano non ci pensi, ma in un attimo tornano all’arcaico, a una terra ancora immersa nel mito».



A film finito, cos’è davvero Anime nere? Più un’inchiesta o più una metafora del nostro paese?

«Bella domanda. Non so, forse alla fine vince la metafora. Ma solo perché i mattoni dell’inchiesta sono solidi».
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