"Il giovane favoloso", ritratto fedele di un Leopardi ribelle e tormentato

"Il giovane favoloso", ritratto fedele di un Leopardi ribelle e tormentato
di Renato Minore
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Martedì 2 Settembre 2014, 13:41 - Ultimo aggiornamento: 4 Settembre, 12:33

proprio vero: un verso di Leopardi (un’immagine, una reverie, una doverosa fantasia) la memoria li conserva per ognuno. Le “vaghe stelle dell’Orsa” possono confondersi con la fredda luna cui alza lo sguardo nel mare dell’infinito su cui si può dolcemente naufragare. Ma il suono misterioso e sbigottito, la segreta corda d’ansia amorosa e disperata, la lucida insidia intellettuale che riconduce ogni sonorità alla compostezza del vero: tutta quella strana musica leopardiana nessuno l’ha dimenticata, anche se ascoltata nei lontani anni scolastici. E, intorno ad essa, la leggenda di un uomo brutto e ingobbito che la natura dotò di un’altissima capacità di esprimersi. Alcuni di quei versi, dall’Infinito, Aspasia, La ginestra, si sciolgono naturalmente nel racconto di Martone come prolungamento della vita del “giovane favoloso”, con le fantasie adolescenziali, i rapporti familiari, la dura fatica del vivere, il saturnino umore che la intride a vista, la «dolorosa purezza» della vita e dell’opera lodata da Benjamin. Versi che di quella vita sembrano una specie di momentaneo suggello, ma anche il suo continuo, necessario nutrimento che produce un altrettanto, continuo arricchimento.

Mario Martone ci racconta chi fosse quest’uomo, la sua esistenza infelice ma ricca di segrete fonti di energia, il suo destino, tra ascesi e ribellione, desiderio di fuga e bisogno di reclusione. Un uomo tormentato da passioni anche concrete che possono pure esprimersi con un linguaggio quotidiano, rabbioso, possono vivere il dramma di desideri e di impossibilità insormontabili, comunicare angosce ipocondriache, l’odio/nostalgia per il luogo d’origine in cui si ravvivano le oscure avventure dell’adolescenza. Martone deve aver letto e riletto tutto quanto si poteva leggere sui giorni e la vita di Leopardi, testi, lettere, memorie, testimonianze altrui. Il giovane favoloso ne fa un uso quasi filologico, corretto, meticoloso, che recupera al momento giusto la frase giusta di ogni fonte e citazione. Ma poi il regista napoletano ha allineato ogni cosa in quello spirito di trascolorato autobiografismo che il poeta delle Ricordanze lascia come un alone accanto a sé. I tanti motivi vengono inseguiti proprio perché se ne colga l’intreccio vivo, il perpetuo riproporsi. Perché la vita, anche quella di Leopardi, non può essere interamente bloccata dagli eventi che la scandiscono. Si deposita in un’infinità di strati, soprapposti e mobili.

Un caleidoscopio che, girando, in ogni momento, proietta e modifica le immagini: Leopardi nella gabbia soffocante del microcosmo familiare, il ribelle che cerca disperatamente contatti con l’esterno; l’innamorato senza speranza che raccoglie autografi per Fanny cogliendo attraverso Ranieri ciò che l’esistenza gli nega; piccolo uomo felice e disperato che fa giorno della notte e che i guaglioni napoletani sfottono, ma dentro di lui «c’è ancora l’assurdo sorriso di chi nella vita non finisce mai di interrogare il mistero». Si conoscono le incomprensioni, i fraintendimenti, le riduzioni maligne, le ingenue o sofisticate enfatizzazioni dominate da ogni tipo di finalità ideologiche, per cui ognuno ha cercato di tirare Leopardi dalla sua parte, chiudendo spesso le porte della comprensione. Martone lo insegue dentro l’accecante riverbero di un pensiero vivo e mescolato alla memoria immaginativa di chi scrive, delicato artificio che ha a che fare con gli accidenti, i campi di forza dei rapporti familiari, gli affanni del corpo, i malanni fisici, le gelosie, i problemi di denaro che sono in grado di spezzarla in un attimo. E il poeta nelle immagini finali raccoglie la ginestra, è la ginestra che spunta ancora, senza piegare il capo al destino e senza illudersi di nulla, unica alternativa alla furia della natura e all’impietoso stigma del proprio karma.

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