Passione Zero: quando l'essere fan di Renato sfiora il feticismo

Passione Zero: quando l'essere fan di Renato sfiora il feticismo
di Antonio Bonanata
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Venerdì 13 Febbraio 2015, 14:41 - Ultimo aggiornamento: 15:55
Dal tovagliolo sporco di cioccolata, che gli aveva lanciato a una cena, alla sigaretta che lui, Renato Zero in persona, gli aveva chiesto di spegnere: per Raffaele Donnarumma, 50enne napoletano trasferitosi da anni in Umbria, la passione per il cantautore romano è qualcosa che va oltre l’essere fan, ascoltare la sua musica, andare ai suoi concerti.



È diventato feticismo, collezionismo a 360 gradi, venerazione. «Per chi come me lo segue da quasi 40 anni, tutto questo contribuisce a far rivivere un passato bellissimo, il periodo che va dalla fine degli anni Settanta all’inizio degli Ottanta» racconta nel salotto di casa, a Bastia umbra, vicino Perugia.



Quando hai cominciato a seguirlo assiduamente?

«È successo nel ’77, avevo 13 anni. Lo vidi in televisione ed ebbi una specie di folgorazione. Non ho potuto fare a meno di correre a comprare il suo quarto disco, “Zerofobia”: me lo rigiravo tra le mani e vedevo un personaggio incomprensibile, non capivo se era un uomo o una donna, mi sembrava quasi un extraterrestre. I suoi testi trattavano argomenti scottanti, come la droga, il sesso, la pedofilia; tutte cose che allora solo i cantautori impegnati come Guccini, De Andrè e De Gregori affrontavano con disinvoltura. Vedere un cantante estroverso, colorato, allegro che con parole profonde toccava cose serissime era una novità assoluta in Italia. Era questo il contrasto che mi colpì di più. E poi la sua figura: alta, magrissima, allampanata».



Non sei stato l’unico ad essere colpito da questo personaggio dirompente.

«No, anzi, ascoltando le sue canzoni ci siamo accorti che raccontava i problemi quotidiani vissuti da noi ragazzi: la solitudine, l’emarginazione. Lui li cantava e noi ci risollevavamo».



È questo che ha portato alla creazione dei primi fan club?

«Renato, involontariamente, stabiliva dei contatti tra gli ammiratori. Ci si ritrovava tutti ai concerti. A quell’epoca usavamo i giornalini dove si potevano pubblicare annunci economici. Noi scrivevamo: “Cerco fan di Renato Zero”. A Napoli avevamo dato vita a un gruppo e si partiva tutti insieme per andare a Roma a vedere i suoi spettacoli. Lì ci si scambiava i contatti. Era meglio di Facebook».



Quando hai visto il suo primo concerto?

«Nel 1979, “Ero zero”».



Com’è stato vederlo dal vivo?

«Stavo lì, sotto il palco, e non ci credevo, aveva un modo particolarissimo di tenere la scena, parlava con il pubblico, aveva uno stile unico nell’interagire con chi batteva le mani per lui. In quegli anni in Italia era tra i pochissimi artisti, insieme a Celentano e Mina, a saper davvero “reggere il palcoscenico”, riempiendolo di immagine e movimento».



E il collezionismo su tutto ciò che riguarda il “re dei sorcini”? Come è nata questa passione parallela?

«Più o meno alla metà degli anni Novanta, con il boom delle fiere e dei mercatini. C’era un giornale, e c’è ancora, intitolato “Raro”. Ne comprai una copia con il suo volto in copertina. Si parlava della discografia e conteneva riferimenti a stampe molto particolari. Guardando le foto cominciai a interessarmi e contattai gli altri collezionisti. In realtà, si può dire che fossi un collezionista già da prima: andavo a un concerto e conservavo il biglietto, usciva un disco e lo andavo a comprare…»



C’è mai stato un album che, per qualche ragione, hai deciso di non comprare, per poi recuperarlo dopo?

«Devo fare una premessa: Renato è arrivato all’apice del successo con “Ero zero” (1979). Da allora la sua verve, la sua rabbia, è diminuita e, di conseguenza, è cambiata anche la forza delle canzoni, perfino il suo modo di cantare. Io e il mio gruppo di amici eravamo molto attenti, ascoltavamo le canzoni con senso critico. Dopo due lavori, “Tregua” e “Icaro”, arrivò “Artide Antartide”, un disco doppio. Ci sembrò che molti brani di quella raccolta non fossero all’altezza di “Ero zero”. Delusi, decidemmo di non comprarlo, una specie di protesta collettiva. Riascoltandolo ora, a distanza di anni, ti rendi conto che è un album meraviglioso, ma in quel momento ci mancava il Renato che ci aveva fatto innamorare. Alla fine, l’abbiamo comprato».



Qual è per te la canzone più bella?

Rimane in silenzio per alcuni, lunghi secondi. Poi chiede: «Che vuol dire ‘più bella’?».



A livello di critica musicale, la canzone che esprime meglio la personalità dell’artista, che descrive Renato Zero. E che, quando la ascolti, dici: “è lui”.

«In questo senso, la canzone che lo identifica meglio è anche quella che a me piace di più: “Il cielo”, del 1977. Quattro strofe senza ritornello. Lì c’è tutto. C’è la speranza, la rabbia, la violenza, in poco più di tre minuti. Ciò che lui ha sempre cercato di esprimere è in quella canzone. Non come in altre: in “Uomo, no” si parla di droga, in “Sbattiamoci” di libertà sessuale. Ne “Il cielo” è concentrata tutta la filosofia di Zero, un crescendo, un’esplosione».



Ti è mai capitato che qualche critico, che volesse studiare la sua musica, si rivolgesse a te, per capire meglio qualcosa dell’artista, essendo tu, comunque, un grande esperto sulla sua discografia?

«Ne sarei orgoglioso ma finora non è mai successo».



Quando hai avuto la consapevolezza di essere un grande intenditore del “re dei sorcini”?

«Un paio di anni fa ho creato, insieme ad altri tre fan che conoscevo da tempo, una pagina Facebook su di lui. Ha più di 4mila iscritti, non solo collezionisti come me ma anche curiosi. Lo scopo è quello di far conoscere tutto ciò che esiste, principalmente a livello discografico, di e su Renato Zero. Abbiamo deciso di mettere in comune la nostra passione».



Quindi è stato quello il momento in cui ti sei reso conto di quante cose avevi e sapevi sul tuo cantante preferito?

«Sì, è stata la consapevolezza di ciò che possedevamo. Inoltre, mi avvantaggia il fatto di essere più grande degli altri tre: ho vissuto il periodo gli esordi».



Non siete gelosi delle vostre collezioni?

«Il vero collezionista dovrebbe essere orgoglioso di mostrare i pezzi che ha e non nasconderli gelosamente. E poi, non riesce neanche a quantificarli con precisione».



E tu? Sai di quanti pezzi si compone la tua collezione?

«Solo i cd sono 400-500. Poi ci sono i dischi, i cofanetti, i 45 giri, le cassette, le videocassette, le riviste, i poster, i libri, i manifesti, i gadget, le magliette, le bandane, i fazzoletti, gli accendini. Si arriva sicuramente a oltre un migliaio di pezzi».



Ci racconti di quella volta che prendesti il tovagliolo su cui Renato si era pulito la bocca sporca di cioccolata? E di quando ti chiese di andargli a spegnere la sigaretta (ma tu conservasti la cicca)?

«Qui entriamo nel feticismo (ride). Il tovagliolo lo presi una sera che eravamo insieme a cena in un ristorante, dopo un concorso letterario promosso dalla sua associazione. C’era un bel clima, eravamo allegri, si beveva. Allora abbiamo cominciato a lanciarci i tovaglioli e io, che avevo mantenuto un pizzico di lucidità, ho afferrato il suo e l’ho subito conservato. La sigaretta mi chiese di spegnerla durante le prove di uno spettacolo. Non avrei potuto accontentarlo».



Ti è costata cara questa passione?

«Collezionare, in generale, è molto dispendioso, tutto dipende dalla capacità economica, ci sono pezzi che possono arrivare a duemila euro. E io sarei capace di spenderli tutti insieme, pur di avere qualcosa che è appartenuta a Renato o lo riguarda. Se volessi, potrei fare un calcolo di quanto ho speso finora. Ma preferisco non saperlo».



Quante volte l’hai incontrato?

«Una decina di volte. Negli anni Settanta, a inizio carriera, era molto più disponibile a incontrare e conoscere gente, non solo i suoi fan. Non era restio a farti sedere al tavolo dove mangiava. Bastava girare per Roma, nei locali che frequentava con Loredana Bertè e Mia Martini, e potevi trascorrere il resto della serata insieme a lui. Dopo i concerti ci capitava di seguirlo nei ristoranti dove si intratteneva con lo staff e la troupe di tecnici. Abbiamo cenato insieme e ha pagato per tutti».



E l’incontro più bello?

«A Napoli, nel 1983. Era nella mia città per partecipare a una trasmissione che si registrava nella sede Rai, si chiamava “Sotto le stelle”. Io ero con il fan club in fila, in attesa di entrare in teatro. La produzione fece sapere che c’era bisogno di una chitarra, perché Renato voleva fare un omaggio ai napoletani suonando una canzone della nostra tradizione. Mi feci subito avanti, a casa ne avevo una. L’andammo a prendere ma, tornati davanti agli studi, non volevano farmi entrare: mi dissero che alla fine dello spettacolo me l’avrebbero restituita. Allora dissi che, se doveva suonare la mia chitarra, sarei stato io a dargliela. Mi fecero entrare in camerino, lui si alzò, mi baciò e mi abbracciò. C’è però un altro episodio, ugualmente molto bello e intenso. Era un sabato pomeriggio, il giorno dopo la cena in cui avevo raccolto il suo tovagliolo. Quella sera ci disse di raggiungerlo l’indomani nella sua villa di Porto Santo Stefano. Abbiamo passato un pomeriggio meraviglioso: era l’artista che non vede nessuno, il personaggio senza le luci della scena. Quel giorno era semplicemente Renato Fiacchini».



A proposito, come nasce il nome “Zero”?

«Perché diceva sempre di essere partito da zero. Si racconta che uscisse di casa con abiti ordinari e si cambiasse nel portone, indossando vestiti colorati e appariscenti. E così andava in giro per Roma. Per strada capitava che lo insultassero, che gli dicessero che era una nullità, quindi zero. Questi epiteti li ha fatti suoi e ci si è affezionato. A ciò si aggiunge l’idea della circolarità, dell’infinito, a cui lui è molto legato. Lo zero non vale nulla ma senza lo zero non puoi fare i calcoli».



E l’artista di oggi, di questi anni? Superati i 60, pensi che troverà qualche formula per reinventarsi, per imprimere una nuova svolta alla sua carriera?

«Penso che sia già un lavoro non da poco mantenere un certo livello e continuare a fare tournée da 40 date, tutte sold out».



Per te lui rappresenta lo stesso che era 10, 15, 20 anni fa?

«Sono convinto che sia ancora una persona anticonformista. In un’epoca in cui tutto era grigio, lui si vestiva di colori. Oggi che tutti vogliono apparire e distinguersi per qualche colore che hanno addosso, lui veste sempre di nero e ha una vita riservatissima. È rimasto fedele a se stesso».
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