Papà malato di tumore riunisce la famiglia per un'ultima cena, poi si sottopone al suicidio assistito

Papà malato di tumore riunisce la famiglia per un'ultima cena, poi si sottopone al suicidio assistito
di Federica Macagnone
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Martedì 26 Maggio 2015, 17:01 - Ultimo aggiornamento: 1 Giugno, 10:19

Quando gli hanno letto la diagnosi, tutto il suo mondo gli è crollato addosso come un castello di carte. Così come erano crollate le sue gambe, pochi giorni prima, durante una festa in un albergo di Londra, quando si era ritrovato steso in terra senza capire perché. «Avrò esagerato un po' con l'attività fisica» aveva pensato.

Non poteva avere nulla di preoccupante Jeffrey Spector, 54enne, del Lanchashire sempre in allenamento e in piena forma fisica, costantemente impegnato nel guidare diverse società di pubblicità e di internet, con una vita piena accanto alla moglie e alle sue tre figlie.

E invece no: un tumore alla spina dorsale lo stava divorando giorno dopo giorno senza che lui se ne accorgesse.

Era questo il responso inappellabile che i medici e la vita gli avevano spiattellato davanti, nel 2008, pochi giorni dopo quella "strana caduta" in albergo. Inutili le radioterapie, impensabile l'intervento chirurgico. Quando fu portato in sala operatoria, nel 2009, il chirurgo rinunciò subito a rimuovere il tumore: troppo pericoloso, non si riusciva neanche a fare una biopsia. Il che voleva dire solo una cosa: nel corpo di Jeffrey c'era una bomba a orologeria che prima o poi lo avrebbe lasciato paralizzato dal collo in giù.

«Se il tumore fosse stato più in basso della colonna vertebrale - disse Jeffrey - avrei perso solo l'uso delle gambe: sarei stato sconvolto, ma l'avrei affrontato. Ma così no, la paralisi totale no». A quel punto nella sua mente ha preso forma lucidamente la soluzione finale. Jeffrey andò in Svizzera alla clinica Dignitas, vicino a Zurigo, specializzata nella pratica del suicidio assistito. Non voleva diventare un peso per la famiglia, non voleva perdere la dignità, non voleva diventare la pallida ombra dell'uomo brillante e dinamico che era stato. E, nonostante le suppliche della moglie e delle figlie, prese la sua decisione.

«So che me ne sto andando troppo presto, vado via prima che sia arrivato il mio momento, ma non ho paura. Quello che sto facendo è la migliore soluzione nel lungo periodo per la mia famiglia. E voglio farlo ora, in piena lucidità, non quando sarò in preda al dolore e sotto la pressione della necessità immediata».

E in piena lucidità, quando all'inizio di quest'anno era peggiorato a tal punto da convincerlo che la paralisi totale era ormai vicina, Jeffrey ha concordato con la clinica l'appuntamento per il suo suicidio assistito, in una data successiva agli esami di una delle sue figlie, per far sì che potesse studiare con tranquillità.

Quello che aveva annunciato è successo. Con lucidità impressionante e una regia accurata. Il giorno prima della data fissata, Jeffrey ha riunito intorno a sé tutta la famiglia e gli amici per un'ultima cena insieme: tutto filmato per lasciare un ricordo. I suoi ultimi giorni sono infatti stati ripresi da una troupe cinematografica che produrrà un omaggio video per la moglie e le figlie. Poi venerdì scorso Jeffrey è volato via nella clinica Dignitas, circondato dall'amore della moglie Elaine, 53 anni, e delle figlie Keleigh, 21, Courtney, 19, e Camryn, 15. Dopo aver detto addio alle sue donne, ha deglutito un barbiturico e nel giro di 5 minuti è entrato in coma ed è morto. Il tutto filmato dalla clinica per dimostrare che la dose non era stata somministrata dal personale. Jeffrey è stato cremato in Svizzera, le sue ragazze sono tornate in Gran Bretagna senza di lui.

«Volevo il controllo delle fasi finali della mia vita - diceva Jeffrey poche ore prima di morire - Doveva essere una decisione risolta da una mente sana. Se sono paralizzato e non posso parlare che speranza c'è? Sono una persona orgogliosa, una persona dignitosa, indipendente e auto-motivata. Sono io che sta facendo questo».

«Voglio che la mia famiglia abbia una vita bella - diceva ancora Jeffrey - Io ormai sto in discesa, ho difficoltà a usare le mani, non ho più forza nelle dita. Sento che la malattia ha oltrepassato la "linea rossa" e ormai sto sempre peggio. Io credo nel diritto umano alla dignità: voglio essere in grado di prendere una tazza di tè e tenere un telefono, voglio poter fare queste cose da solo. Alcune persone mi criticano, ma non mi giudicate. Mai giudicare qualcuno se non ci si trova nei suoi panni».