La vicenda, che intreccia nella maniera più crudele possibile gioia e disperazione, è accaduta in Scozia, a Glasgow. È qui che abita Laura Rennie, la trentanovenne, protagonista, suo malgrado, della storia. Aveva vent’anni quando trovò Toby, che era stata abbandonata a quattro settimane dalla sua nascita, e la portò a vivere con sé. «L’anno successivo poi se ne andò e non tornò più», ha raccontato ai media locali la ragazza, che poi ha aggiunto: «Mi sono sentita come scioccata, quasi intontita, quando ho saputo che Toby era viva. In seguito ho cominciato a immaginare come si sarebbe potuta integrare a casa, visto che mia madre ha un gatto. Avevo portato fuori anche una cuccia ma, più tardi, ho appreso che Toby sarebbe stata abbattuta e che non avrei avuto neanche il tempo di vederla. Nello spazio di 32 ore ho provato emozioni molto contrastanti».
Oltre alla morte della micia e all’occasione perduta per poterla salutare un’ultima volta, a rendere triste Laura, contattata grazie al microchip che l’animale portava sul collo, è stato il comportamento del veterinario: «Mi ha fatto capire chiaramente che non ero la benvenuta». Dispiaciuta per i modi, a suo dire, poco ortodossi del dottore, così la trentanovenne scozzese, a cui non è stato nemmeno consegnato il corpo di Toby per la sepoltura, ha deciso di raccontare tutto alla “SSPCA”, l’associazione scozzese impegnata nella cura degli animali che si è resa protagonista del ritrovamento della sua gatta, ricevendo successivamente le scuse del capoveterinario del centro di soccorso.
«Il nostro veterinario - ha affermato un portavoce dell’organizzazione, che non è riuscita a fare luce sui diciotto anni di “esilio” del felino - ha fatto capire alla signora Rennie che, date le sue condizioni, sarebbe stato troppo triste per lei vedere Toby. In ogni caso, comprendiamo le ragioni per le quali la padrona desiderasse dirle addio e siamo spiacenti che la situazione non sia stata gestita con maggiore sensibilità, nel modo in cui sarebbe dovuto accadere».