San Pietro, il colonnato torna a splendere:
a marzo termina il restyling del capolavoro del Bernini

San Pietro, il colonnato torna a splendere: a marzo termina il restyling del capolavoro del Bernini
di Fabio Isman
3 Minuti di Lettura
Giovedì 19 Dicembre 2013, 08:26 - Ultimo aggiornamento: 21 Dicembre, 09:52
Dopo il Colosseo, forse il monumento pi identitario di Roma, dice Antonio Paolucci, gi ministro e ora direttore dei Musei Vaticani.

«Un’impresa gigantesca», spiega Guy Devreux, a capo del laboratorio di restauro del medesimo museo: cinque anni di lavori, cento restauratori per pulire e mettere in sicurezza il colonnato di San Pietro (Devreux: «Non avveniva integralmente dall’Ottocento»), formidabile «abbraccio di pietra» (Paolucci) ideato da Gian Lorenzo Bernini, che in undici anni (fino al 1667) innalzò la selva di colonne doriche, di pilastri e statue (rispettivamente 284, 88 e 76) in un’ellissi i cui diametri fanno tremare i polsi: 196 e 148 metri. In Vaticano, non si è celebrata la conclusione delle opere, che avverrà a marzo, bensì la partecipazione delle Banche popolari italiane: ha raccolto contributi forse esigui, 200 mila euro, ma significativo, perché completa i finanziamenti, di Eni, Tim, altri ancora, garantendo all’opera i 15 milioni che le sono necessari.



IL GRAN TEATRO

Alla sistemazione dello spazio antistante al cuore della cristianità, pensa già Sisto V Peretti, che nel 1586 vi fa erigere da Domenico Fontana l’obelisco del Circo di Nerone: l’unico, nell’Urbe, a non essere crollato dal piedestallo. L’idea di spostarlo accanto alla Basilica, era già venuta a Niccolò V Parentucelli, con il parere favorevole di tanti: da Michelangelo al Sangallo. Ma è soltanto un altro grande edificatore di Roma, Alessandro VII Chigi, a realizzarlo, e completare anche la stessa basilica e la cupola. Paolo V Borghese aveva già voluto la fontana di destra (1613, di Carlo Maderno), cui seguirà l’altra, nel 1670, a cura di Carlo Fontana.

Nasce così il «gran teatro di colonnate», dal triplice scopo: di abbellire e adornare l’accesso alla basilica; di mostrare l’abbraccio della Chiesa e la spinta verso l’alto (le sculture, ideona berniniana, hanno per questo la testa più piccina dei corpi, alti tre metri); e aiutare la città in un momento di crisi: erano tempi di peste, quella del 1630 in alta Italia è raccontata da Manzoni, ma quella del 1656, dopo Napoli (600 mila morti nel Regno), colpì l’Urbe: 14.437 vittime, il 15 per cento degli abitanti. Non c’era lavoro: una «fabbrica» tanto imponente serviva. E singolare è il parallelismo con i tempi odierni di crisi: i restauri hanno dato a molti esperti, «salvaguardato la professione - dice Devreux -in tempi di immobilismo imprenditoriale non troppo difformi da quelli di allora».



LA TECNOLOGIA

L’opera è stata, ed è, complicatissima. Ripulire tutto: dal travertino di Tivoli e di Monterotondo dell’ennesimo grande teatro berniniano (a similitudine con il baldacchino, che è l’altare maggiore della basilica, e tante altre scenografie sue), alla sostituzione dei ferri che corrodevano le statue al loro interno. «Siamo partiti da un cantiere pilota, sul posto, assolutamente multidisciplinare: per capire che si doveva fare», spiega il responsabile del restauro, compiuto dalla ditta Navarra: «Adottati gli strumenti più avanzati; trovato in Australia l’inerte che non causasse polvere per le microsabbiature e non provocasse problemi a chi assiste ai riti; il georadar per esaminare l’interno delle statue». E sotto strato di scialbature, scoperto pure l’intonaco originale di Bernini: «La colla brodata data a pennello per assomigliare al travertino», che è stata restaurata. Anche qualche diverbio con gli ingegneri: volevano usare resine epossidiche invece delle speciali malte, messe a punto dai restauratori, con in testa Devreux e Michela Gottardo.

Così, è stato restituito lo splendore e il nitore ai due emicicli (due «fuochi», indicati a terra, permettono di vedere allineate le quattro colonne tuscaniche che li sorreggono in larghezza); e le statue, di santi, vergini, fondatori di ordini religiosi, confessori e dottori della chiesa. L’opera è conclusa sotto il papato di Clemente XI Albani, con le ultime statue di Jean Baptiste Théodon e Lorenzo Ottoni, quattro pontefici dopo gli otto che Bernini aveva servito nella sua lunga vita (1598 - 1680).



I FINANZIAMENTI

Il restauro è costato 15 milioni di euro. I contributi sono stati numerosi. Quello delle Banche popolari, tuttavia, è peculiare non per l’ammontare, bensì per il significato: «Molte, sono nate proprio dopo l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII Pecci», dice Giovanni De Censi, che le presiede, accanto a monsignor Paolo Nicolini, artefice della vicenda. Paolucci, che conosce bene le due sponde del Tevere, dice: per i restauri al Colosseo, «tre o quattro anni di ricorsi, per poterli iniziare: quasi il tempo occorso per compiere l’intero e immane lavoro sul colonnato in Vaticano».
© RIPRODUZIONE RISERVATA