Simona Riso, due medici a processo
«Fu omicidio colposo, potevano salvarla»

Simona Riso, due medici a processo «Fu omicidio colposo, potevano salvarla»
di Adelaide Pierucci
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Martedì 13 Gennaio 2015, 05:42 - Ultimo aggiornamento: 19:56


Si era buttata giù dal terrazzo di casa, a San Giovanni, per liberarsi una volta per tutte dagli incubi che la perseguitavano e che le facevano riaffiorare alla mente gli abusi che riteneva di aver vissuto da bambina, in Calabria. Invece Simona Riso la ventottenne calabrese che il 30 ottobre del 2013 ha tentato il suicidio in una palazzina di via Urbisaglia dopo quello schianto era sopravvissuta, ma solo per qualche ora. A non dargli scampo sarebbero state le cure inadeguate dei medici del San Giovanni. Ed è con questa accusa che ieri il gip Massimo Battistini ha rinviato a giudizio con l'accusa di omicidio colposo un medico del pronto soccorso e una ginecologa di turno.
A chiedere il processo era stato il sostituto procuratore Attilio Pisani. Il magistrato ha ritenuto che un intervento più tempestivo del medico Raimondo Grossi e della ginecologa Anna Maria Bandiera avrebbe potuto salvare la ragazza che morì, si è scoperto poi, per la perforazione di un polmone. Alla base del dramma, forse, una nota dei barellieri dell'ambulanza che potrebbe aver fuorviato l'equipe dell'ospedale. La giovane era stata ritrovata in condizioni disperate e alla domanda dei primi soccorritori se avesse subito abusi aveva risposto annuendo. Quindi all'ospedale le indagini mediche erano partite in quella direzione.

LE ACCUSE
Secondo la procura il dottor Grossi «nella sua qualità di medico di guardia del pronto soccorso dell'ospedale San Giovanni dove era stata trasportata la paziente, pur rilevando nel corso della visita uno stato di coscienza ridotta come da sospetto abuso di farmaci o di choc emotivo, annotando che la paziente si lamentava constatando lievi difficoltà respiratorie associate a tachicardia, ometteva di prescrivere con urgenza gli accertamenti strumentali (ecografia completa dell'addome, lastre al torace...) per accertare fratture costali. Esami invece inspiegabilmente posposti alla visita ginecologica finalizzata ad accertare la violenza sessuale riferita dalla govane al personale del 118». La dottoressa Bandiera, invece, «nella sua qualità di medico ginecologo», ha scritto il pm, «ometteva di prestare la dovuta attenzione ai segni clinici che pure venivano descritti in cartella clinica, sottovalutandoli e ritenendoli semplicemente reazione psicosomatica all'evento traumatico». Ossia lo stupro, mai avvenuto.

GLI ABUSI
Il fascicolo sul caso all'inizio era stato rubricato come omicidio volontario.

La famiglia della vittima, nonostante le debolezze psicologiche della ragazza, infatti, non aveva creduto al tentativo di suicidio. L'inchiesta invece ha svelato altro. Il ritardo nell'intervento dei medici. E quegli abusi subiti da bambina e raccontati agli psichiatri su cui ora indaga la procura di Vibo Valentia. Intanto il dottor Grossi spera di chiarire a processo la sua posizione.