Ricetta antideclino, come difendere il sogno antico della Capitale

di Francesco Grillo
5 Minuti di Lettura
Lunedì 12 Ottobre 2015, 23:16 - Ultimo aggiornamento: 13 Ottobre, 00:08
Aveva ragione Andy Warhol che di Roma diceva che essa è un esempio di quello che succede quando i monumenti di una città durano troppo a lungo. Sono, però, i numeri sull’economia che fanno capire - meglio delle cronache giudiziarie che raccontano come la corruzione e la mafia abbiano occupato il vuoto lasciato dalla mancanza di idee e motivazioni - quanto la città sia oggi prigioniera dei fantasmi del suo passato. Imprigionata dalla stessa burocrazia che ne ha drogato, per anni, la crescita. E, soprattutto, priva di un’idea di futuro che la faccia sopravvivere alla crisi dello Stato Unitario di cui è Capitale. È questo il problema più grosso che si troverà ad affrontare chiunque fosse così sconsiderato dal volersi candidare a governare la città più bella del mondo.



I dati sulle esportazioni segnalano, nella maniera più immediata, in che misura un sistema economico territoriale sia competitivo: quelli su Roma dicono che - semplicemente - la Capitale è progressivamente uscita dall’“economia globale”, perdendo treni importanti, mentre litigava con se stessa.



Secondo Istat, lo scorso anno, la provincia di Roma (che coincide, di fatto, con la “città metropolitana”) ha esportato nel mondo meno di 8 miliardi di euro di beni e servizi, in caduta libera (-16%) negli ultimi due anni di psicodramma; laddove, al contrario, è, proprio, la capacità di vendere fuori dai confini nazionali che ha evitato al resto del Paese guai peggiori negli anni di crisi. Roma è per volume di esportazioni al quindicesimo posto in Italia, nonostante il fatto che è al primo per un Prodotto Interno Lordo che è evidentemente gonfiato dalle funzioni amministrative. Lontanissima da Milano, ma anche da Vicenza che esporta più del doppio; e decisamente distante (in rapporto al Pil) anche dalle capitali di un Mezzogiorno - di cui si lamenta la “scomparsa” - come Bari.



Del resto, Roma - nonostante la presenza delle ultime multinazionali con sede in Italia - innova pochissimo e i brevetti che deposita all’ufficio europeo che li protegge sono meno di quelli fatti registrare dalla provincia di Varese; piccola è l’industria manifatturiera non solo rispetto ai valori fatti registrare dalla provincia di Torino, ma anche da quella di Napoli. Del resto - ed è un dettaglio storico dietro al quale si nasconde la radice della “questione romana” che, secondo alcuni, è persino più importante di quella “meridionale” o di quella “del Nord” per capire la crisi italiana - Roma, nel 1870 quando caparbiamente i piemontesi la vollero Capitale del nuovo Regno, contava duecentomila abitanti (molti meno di Milano o di Napoli) che non avevano mai conosciuto la rivoluzione industriale e che, quindi, mai espressero la borghesia industriale e la classe operaia che nei due secoli scorsi sono state componenti essenziali nello sviluppo delle città.



Negli ultimi anni, con la crisi Roma si è mossa: nella direzione sbagliata però perché ancor di più si è abbracciata all’impiego pubblico. Oggi Roma non esporta più neppure un bottone, ma, se si leggono i dati regionalizzati della spesa pubblica, l’amministrazione pesa quanto per nessun’altra grande capitale europea: un terzo di ciò che l’Italia spende in difesa (nonostante la lontananza della Capitale dalle basi più importanti) o in beni culturali (nonostante il fatto che l’Italia si caratterizzi per essere il Paese dei mille campanili) è concentrato a Roma: nei ministeri che - nonostante le varie riforme federali - fanno ancora da gestione centralizzata di amministrazioni mal governate. Ciò dice che - rimanendo fermi - i peggiori guai devono ancora arrivare: una qualsiasi, drastica revisione della spesa non può che cominciare dalla gestione - ipertrofica, ridondante - che Roma fa di se stessa.



La strada che porta al futuro, tuttavia, non può che passare dal capovolgimento degli svantaggi competitivi in opportunità di crescita. A partire, proprio, dal traffico, dai beni culturali. Facendo innovazione proprio mentre stai affogando, come è stato suggerito provocatoriamente ad una conferenza sulle “città intelligenti” che si è tenuta ieri all’università Luiss.



Perché non anticipiamo, allora, a Roma (nella città nella quale - secondo uno studio dello scorso anno - un individuo passa in media più di duecento ore all’anno nella propria vettura) l’obiettivo europeo di rendere le città libere dalle automobili entro il 2050 (e di dimezzarle entro il 2030) visto che, peraltro, il Papa del Giubileo ha dichiarato “guerra” allo spreco dell’ambiente? Perché non facciamo, sul serio, di Roma il “museo del mondo” copiando, magari, quello che gli inglesi fanno in Scozia e i francesi in Provenza consentendo ai turisti del ventunesimo secolo di vivere l’esperienza che fecero i viaggiatori dell’Ottocento? Perché non puntiamo a mettere insieme la polvere di stelle che deve essere rimasta nella città che negli anni Sessanta riuscì ad essere la capitale del cinema mondiale, per attrarre a Roma talenti e studenti stranieri su un progetto di leadership creativa?



A Roma dovremmo dare, innanzitutto, le ambizioni che deve avere una capitale europea, prima di chiedere ulteriori risorse che senza idee finirebbero nella fornace che ha già bruciato miliardi. E soprattutto è indispensabile passare dagli annunci iperbolici alle realizzazioni concrete che le tecnologie ampiamente consentono. L’urgenza che parte dalla Capitale, vale, del resto, per l’intero Paese: ricominciare - subito - dalle città, dai luoghi dove si è formato il Presidente del Consiglio e diversi dei suoi ministri, per ricucire un patto sociale che si è lacerato.



Non è chiaro se la leadership per un progetto così impegnativo possa venire da un esame di coscienza da parte di una politica che ha - quasi dovunque - smesso di fare il suo mestiere; o dall’autocritica di una società non molto “civile” che, troppo spesso, ha oscillato tra la complicità e il cinismo. Di sicuro c’è bisogno di una visione che sia in grado di coinvolgere le persone in un cambiamento che è sfida alle abitudini individuali. Del pragmatismo che è necessario per non farsi impallinare dai dettagli di un appalto, dietro i quali si nasconde il diavolo di chi ha sviluppato una professionalità nell’opporsi al cambiamento per salvare se stesso. Di amministratori non compromessi dai ricatti; e di cittadini responsabili che non si limitano ad osservare da lontano. Se Roma non ci riesce, comincerà a rattrappirsi verso la dimensione provinciale alla quale il sogno unitario la strappò centocinquanta anni fa. E quel sogno che Roma incarna, andrà definitivamente in frantumi.