L’anatema del Papa contro l’Alzheimer spirituale nella Chiesa

di Lucetta Scaraffia
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Lunedì 22 Dicembre 2014, 23:26 - Ultimo aggiornamento: 23 Dicembre, 00:12
Come succede ormai da circa una decina di anni, anche quest’anno scoppiano qua e là, nei Paesi di tradizione cristiana come il nostro, le polemiche sul presepe.

All’inizio si trattava soprattutto di una competizione abbastanza pacifica fra l’antico presepe e il nuovo albero di natale, che aveva attecchito soprattutto nel settentrione della Penisola, nelle città, e sembrava più moderno, più allegro e luminoso.



E soprattutto meno impegnativo dal punto di vista religioso. Ma il presepe ha continuato a tallonarlo, insieme con i presepi viventi rappresentati nelle scuole o nelle chiese, e a suscitare altri tipi di perplessità: in una società sempre più multietnica e secolarizzata, dove il Natale sembrava perdere ogni anno qualcosa di più della sua connotazione religiosa - e in particolare cattolica: l’origine del presepe è senza dubbio italiana - il presepe è diventato oggetto di accuse e critiche anche severe quando veniva esposto in un luogo pubblico, e quindi “laico” per definizione. Esporlo nei luoghi pubblici - sostengono anche oggi i suoi detrattori - significa riportare inesorabilmente un segno religioso là dove non ci doveva stare. Ma anche qualcosa di più: significava riportare il Natale al suo significato di celebrazione religiosa, di festa per la nascita di Gesù, e ostacolare, quindi, quello slittamento del Natale verso una celebrazione astratta e adatta a tutti, un generico appello all’amore fraterno concretizzato soprattutto nello scambio di regali, e quindi in una celebrazione del consumismo. Anche quest’ anno, così, le polemiche si sono riaccese: padri musulmani che si dicono offesi dal presepe - i bambini mai, naturalmente, perché sono lietamente attratti da quel mondo minuscolo brulicante di vita - associazioni di laici che reclamano la laicità degli edifici pubblici, e via dicendo. C’è qualcosa di nuovo, però: i difensori del presepe sembrano avere abbandonato ogni speranza di ottenere l’approvazione collettiva invocando il rispetto per una religione che tradizionalmente ha fatto parte della vita del paese, ma invocano la libertà di fare il presepe perché segno culturale, non religioso. Così come, in fondo, la cappella Sistina non è più celebrata come luogo in cui è rappresentato un punto fondamentale del credo cristiano, il Giudizio universale, ma solo come pregevole manufatto rinascimentale.
Così dovremmo guardare a quel bambino che sorride fra i suoi genitori come a un neonato qualsiasi, oppure come al protagonista di un mito, di una fiaba. O, meglio ancora, non dovremmo neppure guardare verso la capanna, ma piuttosto al mondo di vita quotidiana che la circonda, alla maestria con la quale gli artigiani hanno riprodotto i diversi mestieri, le tavole imbandite e, più recentemente, hanno inserito nel popolo brulicante personaggi noti, come un calciatore famoso o Berlusconi. Perché i pastori guardino attoniti verso la grotta, perché la venditrice di acqua o di limoni si distragga dal suo lavoro per adorare il piccolo e luminoso neonato, tutto questo non conta niente. Anzi, è un disturbo all’ammirazione di un segno culturale. Può sembrare assurdo, ma questa interpretazione del presepe ha convinto: la accetta perfino un laico militante come Corrado Augias - che però fa presente che la stessa cosa non può valere per il crocefisso, fastidiosamente indistinguibile dalla sua origine cristiana. Così sembra essere accettabile per i tribunali francesi chiamati a dirimere liti comunali in alcuni paesi della Francia dove il sindaco, naturalmente conservatore, ha deciso di allestire un presepe nella sede del Municipio. I credenti difendono così i loro segni religiosi attribuendo loro quella che oggi pare essere l’unica definizione accettabile, quella di far parte degna della cultura tradizionale, come le tecniche per fare i formaggi o i canti della mietitura. Una posizione difensiva non del tutto convincente, ma che si può accettare come tecnica di sopravvivenza in un contesto avverso. Meno accettabile, invece, quando la stessa operazione viene proposta dai cattolici stessi, e perfino dai religiosi, a scopo di lucro: è il caso dei francescani italiani coinvolti nel recente scandalo dell’investimento in un hotel di lusso a Roma. La pubblicità di questo albergo veniva fatta citando il Cantico dei cantici, in un’accezione ovviamente ben diversa da quella di Francesco. Questo ultimo esempio serve a ricordare come questa strada “culturale” si presti a molte ambiguità e rischi di sembrare, agli occhi di molti, una prima scivolata verso la viltà.