La battaglia sbagliata del Vaticano sull’Imu

di Oscar Giannino
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Mercoledì 29 Luglio 2015, 23:48 - Ultimo aggiornamento: 23:49
Da laico, liberale e appassionato di questioni tributarie, nonché sostenitore della sussidiarietà tra statale e privato nell’offerta di servizi pubblici, sono tra coloro rimasti ancor più esterrefatti, alla reazione dei vertici della Cei e di molti intellettuali e giuristi cattolici alla sentenza della Corte di Cassazione in materia di Ici dovuta anche dalle scuole paritarie. I vescovi hanno parlato di sentenza ideologica, pericolosa, espressione di un pregiudizio. C’è da chiedersi su quali basi, siano state usate tali espressioni che hanno - esse sì - contribuito ad alzare l’ennesimo polverone ideologico. Proprio per questo è il caso di tornarci sopra.



Forse non se ne sono resi conto, ma con le loro parole i vescovi e il Vaticano sono riusciti a realizzare un autogol che ha del clamoroso. Se ripetuto, a lungo andare genererà esattamente il tipo di reazioni che essi paventano, ma di cui nella sentenza della Cassazione non c’è minima traccia. Iniziamo dal merito della norma tributaria di cui si è occupata la Cassazione. Essa afferma che sono esenti da imposta gli immobili utilizzati da enti non commerciali, destinati in modo esclusivo allo svolgimento «con modalità non commerciali» di una serie di attività con significativa valenza sociale, tra cui le «didattiche». Per precisare meglio a che cosa concretamente ci si riferisca per attività svolte con modalità non commerciali, l’articolo 4 del Dm 200 varato nel 2012 stabilisce che è tale l’attività paritaria.



Cioè quella che garantisce la non discriminazione in fase di accettazione degli alunni, laddove siano osservati gli obblighi di accoglienza di alunni portatori di handicap, e sempre che l’attività sia «svolta a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico, tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con lo stesso». Nella causa relativa a due istituti cattolici di Livorno, la Cassazione ha semplicemente ribadito ciò che era già acquisito nel diritto e nella giurisprudenza. La caratteristica di «non commercialità» non dipende dalle attività esercitate - l’insegnamento - ma dalle modalità del suo esercizio. Detta in chiaro: anche l’attività didattica può essere svolta secondo canoni di economicità, quando vi siano ricavi cioè rette in grado di coprire i costi della produzione. E poiché nel caso di specie risultava che gli utenti della scuola paritaria pagassero esattamente quel corrispettivo, i giudici hanno ritenuto che nel loro caso l’attività era svolta con modalità commerciali. Dunque: nessuna esenzione dal tributo.



Gli istituti sostengono che la retta non copre però i costi. Ma dimenticano che la Cassazione è un giudice di legittimità, non di merito, dunque si è limitata a cassare con rinvio la sentenza di appello, considerata errata avendo giudicato «irrilevante» ai fini Ici il pagamento di una retta da parte degli utenti. Ripetiamolo: si tratta di un principio già acquisito. Tanto acquisito che ieri il ministro Padoan ha detto in Parlamento che dopo la sentenza della Cassazione non c’è alcun bisogno di chiarire alcuna norma. Se alcuni o numerosi istituti paritari cattolici sono rimasti fermi a un’interpretazione per la quale l’esenzione non è prevista solo nel caso in cui l’immobile è usato anche a fini commerciali diversi da quelli didattici, è il caso che cambino consulenti tributari.



Forse alla Chiesa italiana è sfuggito il fatto che, nel frattempo, in Italia l’Imu (anche se la causa era relativa all’Ici di anni fa) si paga su tutti gli immobili strumentali d’impresa, e addirittura purtroppo anche sui mezzi di produzione imbullonati sulle loro superfici. Il presupposto dell’Ici/Imu non è un «capitale (immobiliare) produttivo», ma l’immobile in quanto tale, indipendentemente da un uso produttivo dello stesso, tanto che pagano l’imposta sia le abitazioni che i fabbricati strumentali. Ed è rispetto a questa norma generale, che le norme vigenti hanno introdotto esenzioni quando l’immobile è utilizzato da enti non commerciali per scopi di rilievo sociale. Ma con il limite esplicito delle modalità non commerciali di offerta del servizio. La ragione di questo limite non è un pregiudizio verso le scuole cattoliche, che sono la maggioranza delle paritarie nel sistema pubblico dell’istruzione, né verso le paritarie in quanto tali. A ben vedere, il limite esiste per evitare un’impropria concorrenza - cioè un illecito vantaggio - tra le paritarie pubbliche e altri istituti privati non paritari che vivono dichiaratamente in regime di attività commerciale. Sarebbe un improprio aiuto di Stato.



Io avrei capito se i vescovi avessero tratto occasione della sentenza per criticare l’Imu applicata agli immobili strumentali d’impresa: sono tra chi pensa che quella tassazione sia da rivedere, perché frena lo sviluppo. In quel caso, la Cei avrebbe fatto una battaglia generalista contro gli eccessi di pressione fiscale. Oppure ancora: avrei capito se gerarchie ecclesiastiche e intellettuali cattolici avessero detto che, invece di agevolazioni tributarie per sé, meglio un sistema generale che conceda alle famiglie un voucher di spesa equivalente nel sistema dell’istruzione pubblica, indifferentemente tra scuole statali e paritarie, risolvendo così il problema dei cittadini che sono tassati per la scuola pubblica, ma se decidono di mandare i propri figli a una paritaria devono pagare due volte, perché c’è da sborsare anche la retta. Anche questa, sarebbe una bella battaglia di equità generalista.



Quel che proprio non si capisce, invece, è rivendicare per sé un’agevolazione che la legge, come abbiamo visto, non prevede. E lanciarsi in più tonanti scomuniche all’indirizzo di chi la legge si limita ad applicarla, accusandolo di pregiudizio anticattolico e di becero giacobinismo.



Il Vaticano ci dia retta. Se persiste in simili errori, di diritto ma anche più generalmente culturali, darà armi vere e puntute proprio a chi lo dipinge come difensore di privilegi. Se vuole spingere la politica italiana a rivedere il regime dell’otto per mille che per la Chiesa vale oltre 1 miliardo di euro l’anno, quella che ha imboccato - con la spropositata reazione alla sentenza della Cassazione sull’Ici - è proprio la strada più indicata.