Chi giunge disperato dal mare spesso viene da Paesi dell’Africa centrale o del Medio Oriente, dopo aver trovato in Libia i punti d’imbarco più nascosti, più accessibili e più costosi. La questione libica diviene così chiaramente il punto di partenza per qualsiasi ipotesi di soluzione. Ma parlare di Libia significa dire di qualcosa della cui esistenza è lecito dubitare. Dopo la precipitosa cacciata di Gheddafi, nessun governo è riuscito a dirsi in grado di affermare la propria autorità come soggetto garante della vita dello “Stato libico”. La guerra civile, la contrapposizione tra confessioni religiose, lo scontro fra soggetti tribali che si contendono il Paese ma in realtà governano solo parti di esso sono gli aspetti che caratterizzano la situazione.
Parti di Paese che vanno dalla Tripolitania alla Cirenaica, alle aree tribali del Sahara, agli impianti petroliferi, che garantiscono un minimo di risorse vitali. In teoria la soluzione potrebbe essere ritrovata seguendo l’esempio degli ultimi anni del dominio gheddafiano, cioè mediante un severo controllo dei punti di partenza, tale da impedire la concentrazione di gruppi di potenziali esuli e da prevenire la partenza di imbarcazioni cariche di emigranti. Ma senza l’esistenza di un’autorità statale che garantisca queste pre-condizioni, la teoria è priva di fondamento.
I tentativi avviati dalle Nazioni Unite per una soluzione di compromesso tra i potentati libici, tale da individuare un interlocutore efficiente non promette di aver alcun esito. L’impegno del rappresentante dell’Onu, Bernardino Léon, è riuscito ad avviare il dialogo ma esso sembra oggi arenato, come i fatti dimostrano. L’impegno italiano è quanto mai serrato ma non può, da solo o con i limitati contributi dell’Unione Europea, risolvere in termini netti la situazione. Si incomincia a parlare di Piano B, che significa, al solito, ricorso a soluzioni che presuppongano la minaccia dell’uso della forza; e l’Italia non si ritrae dal dovere di esercitare la sua parte in tale contesto. Ma perché ciò abbia senso e qualche possibilità di successo (specialmente se la minaccia di usare la forza dovesse tradursi in un uso effettivo) occorre un consenso internazionale generalizzato.
A tal fine acquista un valore inatteso l’incontro di oggi tra Obama e Renzi a Washington. Su un appoggio strategico americano non dovrebbero esserci esitazioni ma su un effettivo impegno in un’area dalla quale Obama ha fatto ogni sforzo per tenersi lontano o per lasciare ad altri il compito di guidare qualsiasi operazione vi sono molte ragione per nutrire dubbi. L’esperienza americana in Libia, ferita nel settembre 2012 dall’uccisione a Bengasi dell’ambasciatore Usa in Libia, Chris Evans, e di alcuni suoi collaboratori, ha lasciato un traccia troppo profonda per dar credito all’ipotesi di un intervento diretto. Tanto più che ciò che è accaduto nel mondo arabo dal 2011 in poi non è stato proprio un incoraggiamento a un maggior impegno. Eredità troppo amare si aggiungono nel suggerire prudenza anche quando si presentano questioni umanitarie che è difficile non vedere. Eppure l’incontro con Renzi potrebbe essere l’occasione per un realistico approfondimento della situazione più difficile e più intricata (come quella dell’Isis) fra quelle che oggi allarmano il mondo.