Bisogni del pianeta/ La sicurezza alimentare non può più attendere

di Romano Prodi
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Sabato 28 Marzo 2015, 23:05 - Ultimo aggiornamento: 29 Marzo, 10:35
Come nutrire il pianeta: questo sarà il filo conduttore dell’Expo che si aprirà fra un mese a Milano. Non è quindi tempo perso cercare di capire come stanno le cose oggi e come cambieranno domani.



La prima domanda è se tutti si nutrono a sufficienza: la risposta è no. Più di ottocento milioni di persone, cioè oltre l’11% degli abitanti del pianeta, soffrono la fame. Gli obiettivi che i grandi della terra si erano proposti in passato non sono stati raggiunti, anche se alcuni paesi come il Brasile, l’Indonesia e la Bolivia hanno fatto grandi progressi in materia. La produzione agricola deve quindi aumentare per dare il pane a tutti, ma deve anche aumentare per fare fronte ai mutamenti delle diete alimentari che accompagnano lo sviluppo economico.



Il passaggio alle proteine cambia il mondo: una persona che si nutrisse solo di carne avrebbe bisogno di cinque volte la superficie agricola necessaria a nutrire una persona che vive esclusivamente di cereali. Lo sviluppo rivoluziona la dieta: in Cina il consumo pro-capite di carne, che era di 20 kg. all’anno nel 1980, è arrivato a 54 kg. nel 2010 e continua a crescere. Così avviene per i miliardi di persone che non hanno ancora raggiunto un sufficiente livello di benessere. Tutti gli esperti concordano nel prevedere che, se non vi saranno drastici cambiamenti, la produzione di cibo non sarà in grado di seguire l’aumento della domanda.



Perché la produttività cresce meno che in passato, perché i risultati più alla portata di mano sono stati già raggiunti mettendo a coltura le terre più fertili, perché gli investimenti nella ricerca in campo agricolo sono nettamente inferiori rispetto alle necessità e, infine, perché il grande processo di urbanizzazione priva l’agricoltura delle terre più fertili. Basta pensare che, prima della metà di questo secolo, il 70% dell’umanità vivrà nelle città. A questo si aggiunge il fatto che una crescente quantità di terreno fertile, in conseguenza di improvvidi sussidi pubblici, non viene dedicata alla produzione di cibo ma di biocarburanti. Non si tratta di sciocchezze perché il 40% della produzione di mais degli Stati Uniti, utilizzando una superficie agraria più grande di molti stati europei, non viene impiegata per riempire le bocche delle persone o degli animali ma finisce nei serbatoi delle automobili. Fa un certo effetto pensare che la quantità di cereali necessaria per produrre carburante per un solo rifornimento di un Suv (240 kg di cereale) sarebbe sufficiente per nutrire un essere umano per un anno intero.



Negli ultimi due anni questo problema è meno sentito perché abbiamo avuto raccolti eccezionalmente buoni e perché la crisi economica ha compresso la domanda in molti paesi ma, dall’inizio del secolo, abbiamo già avuto due lunghi periodi di estrema scarsità di cibo, con improvvisi aumenti di prezzo delle derrate alimentari che hanno provocato tragiche conseguenze nei paesi più poveri e che, non solo nel periodo della primavera araba, hanno anche prodotto violente rivolte popolari. In questo quadro di precarietà sul futuro, la sicurezza e la stabilità degli approvvigionamenti alimentari sono diventate obiettivi fondamentali non solo da parte dei paesi come la Cina e l’India ma anche di Corea e Arabia Saudita e di tutti i paesi che hanno scarsità di terra coltivabile rispetto al numero di abitanti.



Da qui nasce la politica di acquisti di terra negli unici due continenti dove sono ancora disponibili vaste superfici non coltivate, cioè in Africa e in America Latina. A questa politica, che sta già causando tensioni e molte altre ne causerà in futuro, si aggiunge il fatto che il commercio mondiale delle derrate non è più in mano agli Stati Uniti e all’Europa ma a nuovi protagonisti come la Cina, India, Indonesia, Brasile, Canada e Australia. Il grande magazzino delle scorte agricole mondiali non è oggi nelle pianure americane ma in Cina, nei cui silos, nel 2013, era depositato il 30% delle scorte mondiali di grano, il 40% del mais e il 42% del riso. Conviene anche sapere che il maggiore esportatore di soia brasiliana è cinese e che oltre un terzo della produzione suinicola degli Usa è di proprietà cinese.

In questo quadro, nel quale la sicurezza alimentare è così importante, l’Italia deve porsi obiettivi precisi e rigorosi, anche se il suo rapporto fra popolazione e risorse agricole non è paragonabile a quello dell’India o della Cina e l’appartenenza all’Europa costituisce una potente garanzia. Il primo obiettivo deve essere quello di sprecare meno: un terzo dei prodotti alimentari non entra nella nostra bocca ma va disperso o sprecato e finisce direttamente nei bidoni delle immondizie. In secondo luogo bisogna produrre di più sporcando meno: in molte regioni del mondo l’agricoltura è responsabile di una grande parte dell’inquinamento delle falde acquifere. Il terzo comandamento ci dice che dobbiamo produrre di più usando meno acqua: utilizzando sistemi di irrigazione più efficienti e varietà di sementi che resistono alla siccità e agli stress idrici.



Il quarto obiettivo deve essere quello di usare la terra più fertile per produrre cibo, lasciando all’energia gli scarti di produzione, i terreni marginali e i boschi cedui. Per raggiungere l’obiettivo della sicurezza alimentare abbiamo però bisogno di un rafforzamento delle aziende agricole e, soprattutto, di moltiplicare le scarse risorse dedicate alla ricerca agraria nelle nostre università e nei nostri Istituti sperimentali. Vantiamo un passato glorioso nella ricerca scientifica in agricoltura. Le innovazioni nella genetica sono state una gloria del nostro paese: a Bologna per il grano, a Palermo per gli agrumi, nel nord-est per la vite e la frutta. La nuova ricerca genetica non passa più da noi: è ora di mettere seriamente in agenda questo problema.



Resta infine un’ultima raccomandazione: non rubiamo mai più un metro quadrato di terreno all’agricoltura. Abbiamo già devastato abbastanza il suolo italico. Abbiamo infinite zone già urbanizzate e completamente inutilizzate. La crisi le ha moltiplicate e qualsiasi auspicabile ripresa non avrà bisogno di quella terra. Lasciamola all’agricoltura. Dedichiamola al nostro futuro.