Valori e novità/ La battaglia dell’istruzione e le derive ideologiche

di Alessandro Campi
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Giovedì 9 Luglio 2015, 23:50 - Ultimo aggiornamento: 14 Luglio, 10:45
Mentre in Grecia (e in altre parti del mondo) si teme per il rischio di tagli e licenziamenti nel settore pubblico, in Italia si protesta contro una legge che prevede l’inserimento nell’organico della scuola statale, a spese della collettività, di oltre centomila precari. Riesce persino difficile spiegare ad un osservatore straniero perché si ci si lamenta di un lavoro stabile concesso a così tante persone mentre altrove si teme la disoccupazione.



È un paradosso che la dice lunga sulle bizzarrie del nostro Paese, ma che spiega anche come il sistema dell’istruzione qui da noi, più che un pezzo della macchina pubblica da manutenere e aggiornare seguendo i cambiamenti della società, sia piuttosto un fronte di lotta politico-ideologica tra i più sensibili, intorno al quale forze politiche, sindacati, minoranze attive, associazioni di cittadini, comitati di quartiere e intellettuali illuminati da sempre misurano la loro capacità a ergersi a paladini della democrazia. Il risultato è che nel corso dei decenni più è parso che il settore scolastico e dell’insegnamento fosse in crisi irreversibile e dunque da riformare radicalmente, più sono cresciute le mobilitazioni e le proteste contro tutti i tentativi semplicemente annunciati o timidamente tentati per dare alla scuola italiana un assetto più funzionale e moderno e che spesso si sono risolti - tipico il caso della riforma Berlinguer - in una crescita della burocratizzazione.



Ma anche in una crescita del dirigismo ministeriale, dei vincoli amministrativi e delle circolari: l’esatto contrario della libertà di cui l’insegnamento avrebbe bisogno ad ogni livello. Il miracolo di una riforma organica e ambiziosa, dopo molti tentativi abortiti o rimasti a mezza strada, sembra infine riuscito a Matteo Renzi. Il voto di ieri, dopo la fiducia già ottenuta al Senato a fine giugno, è stato in effetti una formalità, visti i rapporti di forza esistenti nella Camera Alta. E’ servito a confermare il dissenso sempre più sterile della minoranza del Pd e a stimolare qualche interrogativo malizioso circa il sostegno arrivato a Renzi da alcuni esponenti della frangia di Forza Italia che si riconosce in Denis Verdini.



I risvolti politici del complesso iter parlamentare che ha portato all’approvazione definitiva dal disegno sulla “Buona Scuola” terminano qui. E resta a questo punto solo la sostanza tecnica contenuta nella nuova legge. I giornali, come è ovvio, sono oggi pieni di tabelle e schede che spiegano i punti qualificanti e innovativi del provvedimento: il preside-manager, l’autonomia scolastica, la valutazione dei docenti, gli investimenti in edilizia scolastica, la massiccia messa in ruolo dei precari, l’alternanza scuola-lavoro, la formazione continua degli insegnanti, i benefit e gli incentivi economici che potranno essere concessi a questi ultimi, ecc.



Conviene dunque limitarsi a qualche considerazione più generale, riferita a quelli che sembrano essere i criteri ispiratori dell’intera riforma: la valorizzazione del merito nelle carriere dei docenti; e l’introduzione di un modello gestionale e organizzativo modellato su quelli in uso nel settore privato, che fa perno sui nuovi poteri attribuiti ai dirigenti scolastici. Presi in sé si tratta di criteri apprezzabili, purché nella loro applicazione pratica non si finisca per assolutizzarli rispetto a quelle che sono le reali finalità, dal punto di vista sociale ed educativo, della scuola pubblica, che non potrà mai essere un’azienda in senso proprio e sempre dovrà bilanciare la ricerca dell’efficienza tecnico-amministrativa con il rispetto della sua missione storica, che rimane pur sempre quella di formare persone libere e intellettualmente autonome.



Prendiamo ad esempio l’idea che i neo-immessi in ruolo (e a regime tutti i docenti) debbano sottoporsi al giudizio di un Comitato di valutazione. Nessuno scandalo, come qualcuno invece sostiene. Quel che resta da capire è come tale valutazione verrà data. Ci si affiderà a indicatori statistico-quantitativi oggettivi, coi pessimi risultati che questo sistema ha già dato a livello universitario, o si terrà conto di fattori soggettivi quale ad esempio i differenti contesti sociali e territoriali nei quali gli insegnamenti inevitabilmente operano? Ma in quest’ultimo caso come si potranno evitare arbitri, errori e valutazioni discrezionali?



Il preside diviene con la nuova legge una figura monocratica. In un Paese malato di egualitarismo, di collegialità chiacchierona e che aborre il principio di autorità sembra quanto di più anti-democratico si possa immaginare. In realtà si crea una figura che, nella logica dell’autonomia concessa ad ogni singolo istituto, assume su di sé la responsabilità di garantirne la corretta gestione amministrativa, di organizzarne l’attività didattica, di sceglierne (quando la riforma sarà a regime) tutti i docenti premiandoli e incentivandoli secondo il loro livello di rendimento, ecc. Tutto bene purché, ancora una volta, un simile carico di impegni – che peraltro dovrebbero prevedere competenze professionali sempre più ad hoc – non dia luogo a scelte arbitrarie, discrezionali e irrazionali, specie quando si tratta di decidere sulle carriere dei propri sottoposti.



D’altro canto non è molto chiaro come il principio dell’autonomia, che il preside-manager dovrebbe appunto garantire tenendo conto delle specifiche esigenze degli studenti, possa conciliarsi con un’organizzazione della scuola italiana nella quale è ancora preponderante il ruolo delle burocrazie ministeriali con le loro fobie dirigiste. Il che ha spinto alcuni a chiedersi, non senza qualche ragione, se i dirigenti scolastici immaginati dalla riforma non siano in realtà che la cinghia di trasmissione verso il territorio di tali burocrazie e dunque dei piccoli burocrati a loro volta. Ciò detto si sappia che la “buona scuola” non la fanno le riforme, per quanto ben congegnate, ma gli orientamenti pedagogici e i modelli valoriali che ispirano coloro che operano al suo interno. La deriva ideologica degli ultimi anni ha visto purtroppo trasformarsi gli insegnanti-educatori in anonimi formatori.



L’apprendimento, inteso genericamente come formazione alla vita, ha sostituito la conoscenza, giudicata quasi un anacronismo nozionistico.
La valutazione secondo criteri vagamente tecnocratici ha preso il posto del rigore secondo criteri etici. Renzi ha sicuramente vinto la battaglia politico-parlamentare. Ma per la “buona scuola” resta da combattere quella culturale.