La scommessa prudente del governo

di Marco Fortis
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Martedì 7 Aprile 2015, 23:47 - Ultimo aggiornamento: 8 Aprile, 00:09
Il Documento di economia e finanza (Def) 2015 illustrato ieri in consiglio dei ministri, che sarà approvato il prossimo venerdì, è il secondo del Governo in carica, dopo quello presentato l’8 aprile dello scorso anno dal presidente Matteo Renzi e dal ministro dell’Economia Piercarlo Padoan.

Il Def 2014 coincise con l’enunciazione da parte del nuovo esecutivo di un ambizioso Piano di riforme per favorire la crescita e il miglioramento della competitività, di cui il Jobs Act e il taglio della componente lavoro dell’Irap sono stati, a consuntivo ed anche con qualche variazione sul tema, le realizzazioni economiche più concrete, assieme ai progetti avviati in campo istituzionale sulla riforma elettorale e quella del Senato. A ciò si è aggiunto il doveroso, sia pur incompleto, pagamento dei debiti arretrati della Pa. Quasi contemporanea fu poi la decisione sugli 80 euro, la cui bontà Renzi ha sempre difeso, e lo ha ribadito anche nell’intervista al “Messaggero” di domenica scorsa, soprattutto perché misura di equità a favore dei soggetti economicamente più svantaggiati.



Ma intanto, a prescindere dal suo (mancato o limitato) impatto immediato sulla domanda interna, il bonus degli 80 euro ha anche permesso a molti italiani di accumulare risparmio che potrebbe adesso tornare buono - questa è la speranza del premier - in una fase di ripresa della fiducia e dei consumi quale si preannuncia il 2015.



Gli ultimi giorni sono stati contrassegnati da polemiche (talora esagerate) sul deludente dato Istat di febbraio sull’occupazione (stiamo sempre parlando di stime, lo si ricordi, che potrebbero essere rettificate anche di parecchio il mese prossimo). Ma, al netto di questo indicatore in apparente controtendenza, è indubbio che la situazione economica generale del Paese presenta evidenti segnali di miglioramento, con una ripresa che si sta estendendo anche agli investimenti. Segnali confermati anche dai recenti dati di Markit di marzo che sottolineano come la ripresa della produzione e dell’occupazione manifatturiera dell’Italia a marzo siano tra le più forti nell’Eurozona assieme a quelle di Germania e Olanda. In questo quadro si inseriscono le linee previsionali e programmatiche del Def 2015, da leggersi su due chiavi principali: la ripresa dell’economia e i tagli delle tasse (tra le quali, viene sottolineato, vanno inseriti anche gli 80 euro, benché contabilizzati “formalmente” come spesa pubblica).



Sulla ripresa il governo scommette con “prudenza”, mentre riguardo ai tagli alle tasse li quantifica per un totale di 18 miliardi nel 2015, a cui si aggiungono 3 miliardi di clausole eliminate.

Se il Def 2014 ebbe caratteristiche prevalenti di progettualità e fu una sorta di biglietto da visita del nuovo Governo appena insediatosi, il Def 2015 è invece un testo partorito da un esecutivo ormai rodato, consapevole del migliorato quadro economico internazionale ed italiano e dei risultati sinora conseguiti, benché parziali. È un documento che sancisce il definitivo aggancio alla ripresa economica da parte del nostro Paese, dopo la falsa ripartenza del 2014 (complicata dalla crisi russo-ucraina e dal rallentamento generale dell’Eurozona) e la volontà del governo di proseguire in un consolidamento fiscale sostenibile, approfittando di quei margini di flessibilità che proprio nell’introduzione del Def 2014 erano stati chiaramente indicati come una possibile chiave di volta della strategia di Renzi e Padoan. Strategia che alla fine è stata benedetta da Bruxelles, le cui autorità ci hanno permesso maggiori margini temporali di manovra rispetto agli obiettivi precedentemente programmati di bilancio strutturale.



Ciò “in cambio” delle riforme su cui l’Italia è ora profondamente impegnata e tenendo altresì conto delle oggettive difficoltà della nostra situazione economica. Senza dimenticare i “fattori rilevanti” che il nostro Paese può rivendicare (surplus statale primario tra i più alti al mondo, basso debito privato, sostenibilità del debito pubblico nel lungo periodo grazie alle riforme pensionistiche, ecc.), oltre alle fondate critiche sollevate dal Governo italiano sulle modalità di calcolo dell’“output gap” da parte degli econometrici della Commissione Ue e quindi delle stesse tempistiche del pareggio strutturale. Tutti aspetti che Padoan ha ben argomentato in sede europea nei mesi scorsi.

Il Def 2015 è piuttosto prudente sulle previsioni economiche, indicando una crescita del Pil dello 0,7% nel 2015 (che alcune istituzioni si attendono invece più alta, ad esempio la Confcommercio che prevede un +1,1%), dell’1,4% nel 2016 e dell’1,5% nel 2017. La modifica più consistente rispetto alle precedenti stime del Governo dello scorso autunno riguarda il Pil del 2016, previsto ora più alto di 0,4 punti percentuali. Il deficit statale programmatico a sua volta è fissato al 2,6% per il 2015, all’1,8% per il 2016 e allo 0,8% nel 2017. Come spiegato in una nota diffusa in serata da Palazzo Chigi, «il quadro tendenziale aggiornato consentirebbe di raggiungere il pareggio di bilancio strutturale già nel 2016, tuttavia il Governo ha ritenuto opportuno confermare al 2017 il conseguimento di tale obiettivo così da conferire una natura espansiva alla programmazione per il 2016. (…) Il debito pubblico si stabilizza nel 2015 e comincia il percorso di riduzione a partire dal 2016.



Un percorso che libererà il Paese da un grave fardello. La regola del debito viene quindi rispettata e l’obiettivo viene centrato nel 2018». Continueranno anche le privatizzazioni (Enel e Poste, ma ci sono anche altre voci come Ferrovie ed Enav, ha spiegato Padoan), che frutteranno in 4 anni 1,7-1,8 punti di Pil.

Il Governo entro venerdì chiarirà meglio il programma delle riforme, che molto dirà anche sui nostri spazi di trattativa con Bruxelles riguardo a ulteriori gradi di flessibilità. Ma le previsioni economiche contenute nel Def implicano che l’esecutivo, come aveva anticipato Renzi stesso nell’intervista di domenica, è impegnato a trovare da subito soluzioni che evitino lo scatto delle clausole di salvaguardia, cioè degli aumenti automatici di Iva e accise in caso di insuccesso nei tagli di spesa. «Disinnescare le clausole di salvaguardia», ha spiegato ieri in conferenza stampa il ministro Padoan, vale «un punto di Pil».

Proprio sul fronte dei tagli di spesa si gioca una partita importante, anche nel braccio di ferro con i Comuni che ritengono, come da consunto copione, di essersi già “sacrificati” abbastanza e non vogliono perciò subire ulteriori ridimensionamenti dei loro bilanci. La posta in gioco è alta perché anche i cittadini, le imprese e i consumatori si sono già “sacrificati” abbastanza (e di certo le virgolette in questo caso si potrebbero omettere). Dunque i tagli di spesa pubblica (pur in un coerente equilibrio di sforzi tra Stato centrale e soggetti periferici) sono necessari per evitare un effetto depressivo sui consumi che gli aumenti dell’Iva potrebbero innescare sullo stile di quanto è avvenuto in Giappone l’anno scorso. L’unica strada percorribile è chiaramente quella di una razionale “spending review” a cui Renzi non intende di sicuro rinunciare, sia pure impostata su linee e tempi più pragmatici e realistici rispetto a quanto tratteggiato a tavolino nella monumentale documentazione predisposta dal Commissario Cottarelli.



Una “spending review” a cui neanche i Comuni in definitiva possono sottrarsi, perché il modello dei “sacrifici” non può essere sempre solo quello dei “sacrifici” altrui, come è accaduto, ad esempio, con varie Camere di Commercio che hanno semplicemente trasferito i minori contributi ad esse indirizzati in seguito alla riforma su tagli di spese a favore del territorio anziché su ristrutturazioni organizzative e di personale della propria struttura.