Il nuovo simbolo/ Senza Capitale e in inglese, il doppio schiaffo a Roma

di Mario Ajello
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Lunedì 16 Marzo 2015, 23:50 - Ultimo aggiornamento: 17 Marzo, 10:14
Chiedeva Publio Ovidio Nasone: «Che cosa, migliore di Roma?». Sicuramente non Rome. Eppure, ormai è fatta. È diventata ufficialmente anglitaliana anche l’Urbe, per effetto della lettera con cui l’“assessora” Alessandra Cattoi (già convertita al femminismo linguistico sponsorizzato dal/dalla presidente/presidentessa di Montecitorio, Laura Boldrini) rende operativo presso tutti gli uffici comunali e nel paesaggio cittadino il nuovo nome di Roma diventata Rome e il suo nuovo status di non più Capitale, almeno dal punto di vista nominalistico.



Scrive l’“assessora” - a proposito dell’«identità visiva» di questa metropoli riassunta ormai nel «claim» globalese e turisticante Rome&You - che é «pleonastico» e dunque meritevole di eliminazione (elimination?) dal discorso burocratico e pubblico l’«attributo Capitale» per la Capitale italiana. Pleonastico? Pleonastico chiamare Capitale, scrivendone la parola a chiare lettere con tanto di “e” finale e non capital con tanto di minuscola, il simbolo della cristianità che in quanto luogo simbolo della fede sta per ospitare il Giubileo e lo ha fatto tante altre volte dal 1300 in poi?



La città che è Caput Mundi da quando mondo è mondo? La città per cui un tipo pacato come Camillo Benso conte di Cavour si appassionò caldamente - in tre famosi discorsi del 1861 su Roma Capitale, ripubblicati di recente dall’editore Donzelli - dicendo che «Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali».



«E - prosegue - tutta la storia di Roma, dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi, è la storia di un luogo la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè, destinata ad essere la Capitale di un grande Stato?».



Roma è Roma Capoccia di per sé e non ha certo bisogno di pennacchi. Ma neanche necessita di ipocrisie. Come quella, da parte di chi la declassa, di chiedere che vengano riconosciuti extra-costi per il Giubileo e per le sue funzioni di Capitale, senza che si indichi però ufficialmente il rango nel suo stemma e nelle sue insegne. Siccome nomina sunt consequentia rerum, viene il dubbio che negare terminologicamente l’evidenza di un dato storico sia un errore clamoroso e un declassamento grave, in una fase - tra Expo e Anno Santo - in cui l’Italia e la sua città-guida sono particolarmente protagoniste sul palcoscenico globale.



Sul quale, oltretutto, ci si può stare benissimo parlando l’idioma nazionale, che da Dante e Leopardi in poi non solo non ci ha fatto sfigurare ma è diventato uno dei più studiati nel mondo. Anche se quaggiù - dove dal 2000 a oggi l’uso di termini inglesi nel discorso comune è aumentato del 773 per cento - si tende a non ricordarsi di queste evidenze ed è diventato itanglese anche il vecchio politichese adattato a questa Seconda Repubblica infinita, tra Jobs Act, Green Act, Spending Review e via dicendo.



Mentre il burocratese romano - versione trasporti pubblici - ora suona in questa maniera negli slogan pubblicitari: “Atac. Urban Breaths, l'arte sale in metropolitana”. O così: “#ArtIsAct” (altro percorso sensorial-visivo-emozionale da metropolitana, quando passa). Il giornale britannico Telegraph ci ha anche presi in giro per questa nostra sudditanza alla lingua inglese, che qui si reputa più adatta ad attirare i turisti, ma noi insistiamo per un immotivato senso d’inferiorità.



Nel chiamare Roma non con il suo nome che esiste da millenni ma Rome - e dunque noi siamo "romeni" e il famoso film non è più Vacanze romane ma Vacanze romene - c’é una sorta di suicidio culturale. Che si accoppia a una paura senza senso: quella di scambiare per solenne e pomposo l'appellativo di Capitale che invece è il riconoscimento normale di un rango, con tutti i doveri e le prerogative che spettano a una città che quel rango lo ha da sempre. E che andrebbe in ogni forma e in ogni maniera sempre di più ribadito e non sottratto o negato.