Basta conigli dal cilindro, Roma ascolti se stessa

di Alessandro Campi
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Sabato 10 Ottobre 2015, 00:24 - Ultimo aggiornamento: 00:43
La latitanza della politica genera mostri politici. Vent’anni di Seconda Repubblica ce lo hanno ampiamente dimostrato. Laddove a intervenire sulla scena pubblica, con funzione di supplenza rispetto agli attori partitici tradizionali, sono poteri indiretti (la magistratura, la tecno-burocrazia) oppure forze sociali e personaggi che come unici titoli possono vantare l’inesperienza e un’esibita intransigenza morale, a farne le spese è quella stessa democrazia che si vorrebbe rigenerare contrapponendo la virtù dei giusti ai maneggi dei corrotti.



La vicenda di Ignazio Marino - l’onest’uomo estraneo al Palazzo costretto alla resa per non aver voluto scendere a patti, secondo l’immagine che vorrebbe lasciare di sé ai posteri - è l’ennesimo capitolo di un’illusione dalla quale l’Italia, dopo il trauma originario di Tangentopoli, non è più riuscita a liberarsi. E che appunto consiste nel pensare che il buongoverno - di una città, di un’intera nazione - sia possibile solo affidandosi a chi con i riti, i ritmi, gli strumenti e il linguaggio della politica (cattiva e corrotta per definizione) non ha nulla a che fare. Salvo appunto scoprire, come nel caso eclatante della Roma governata da Marino, che non basta atteggiarsi a naïf ed eccentrici, o dichiararsi estranei a qualunque potere, per compensare la propria incapacità a scegliere e decidere.



E dal momento che i moralizzatori, la storia lo insegna, hanno la tendenza ad impiccarsi con le loro stesse mani, è anche successo che Marino si sia dovuto arrendere non per ragioni politico-amministrative, sulle quali si può pur sempre discutere in termini di meriti e demeriti, ma per una misera storia di scontrini mal rendicontati. Vittima dunque - magari scopriremo persino incolpevole - di quell’isteria collettiva, travestita da indignazione morale, che in questi anni ha fatto la fortuna pubblica di personaggi venuti dal niente e distrutto carriere consolidate spesso sulla base di semplici sospetti o insinuazioni. E al momento della resa, lui sempre integerrimo e compiaciuto della sua immagine innocente, si è persino ridotto a lanciare messaggi vagamente minacciosi ai suoi compagni di strada nello stile di quella politica sino al giorno prima aborrita e denunciata.



Ma alla base di quel che è accaduto a Roma, per tornare al punto iniziale, c’è una colpa della politica, e dunque degli uomini che dovrebbero responsabilmente e senza paura praticarla: prima hanno sostenuto Marino con l’idea che il suo candore impolitico avrebbe potuto smorzare la rabbia antipolitica serpeggiante all’epoca anche tra gli elettori di centrosinistra, poi l’hanno tenuto in vita oltre ogni ragionevolezza, anche quando la sua debolezza e incapacità a governare s’erano fatte manifeste, sino a che, more solito, la notizia di un’inchiesta della magistratura ha posto fine all’agonia.



E adesso? Ci saranno il commissariamento e una transizione di tipo tecnico, che coincidendo col Giubileo certo contribuiranno ad aggravare il danno d’immagine che già si è prodotto. Ma forse questa brutta vicenda, visto che Roma è pur sempre la Capitale di questo sgangherato Paese e dunque anche quel che si dice un simbolo, potrebbe adesso servire per tentare un’inversione radicale di tendenza, che se ci fosse sarebbe salutare su scala nazionale.



Se non si vuole consegnare il Campidoglio ai grillini, già pronti a cavalcare l’onda del disgusto generalizzato e a proporsi come i nuovi vendicatori del popolo contro la corruttela diffusa, bisognerà infatti che centrosinistra e centrodestra, nelle loro diverse componenti interne, si attrezzino nel modo migliore. Il che significa partire non dall’alto di candidature scelte con l’idea di fare colpo su elettori sempre più esasperati e delusi o per appagare l’ambizione di questo o di quello (come si sta già facendo in queste ore), ma dal basso, cioè da una mobilitazione attiva delle molte energie e forze presenti sul territorio, da associare non intorno ad uno slogan ma ad un serio programma politico. Esattamente ciò che non ha saputo fare Marino, convinto che intorno a lui (e contro di lui) ci fossero solo malaffare e interessi torbidi e che l'unico modo per non contaminarsi era starsene solo.



La visione caricaturale di Roma, assurta a verità universalmente condivisa dopo l’inchiesta su Mafia Capitale, vuole che nel suo corpo sociale operino soltanto gruppi di potere politicamente trasversali, oligarchie affaristiche, consorterie secolari e centrali criminali variamente pericolose. E che questa cupola sovrasti una massa umana indolente e sovente corriva. Ma questa è davvero la sublimazione della tradizionale retorica antiromana. Roma per definizione è molto altro, nel senso del bene, del vitalismo civile, della creatività culturale, della capacità di fare e d’intraprendere, dell’altruismo. E anche dell’onestà, che statisticamente è sempre più diffusa, qui come in ogni angolo del mondo, dell’imbroglio. Si tratta solo di raggrumare politicamente queste istanze positive intorno ad un progetto collettivo, che se ben congegnato poi troverà anche un leader o candidato in grado di interpretarlo.



Ma prima ci vuole appunto un ritorno sulla scena della politica, che per funzionare bene nella fase della decisione e del governo deve prima occuparsi di raccordare tra di loro gli interessi economici e sociali, di intessere alleanze e collaborazioni solide, di valorizzare le realtà associative e le strutture di partecipazione, provando anche a guardare lontano. Altrimenti si rischia di lasciare il passo a quelli che vogliono cambiare il mondo o che si ritengono gli unici puri e incontaminati e si è visto come va ogni volta malamente a finire.