La riforma della Pa cambia ancora: braccio di ferro su toghe e militari

Il ministro della Funzione pubblica Marianna Madia
di Andrea Bassi
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Lunedì 23 Giugno 2014, 01:06 - Ultimo aggiornamento: 17:29

Montato, smontato, rimontato, diviso, riassemblato. Il parto della riforma della Pubblica amministrazione si sta mostrando pi difficile del previsto. Se il testo verrà pubblicato oggi in Gazzetta Ufficiale, e il condizionale è ancora d’obbligo perché la data potrebbe ancora slittare, saranno esattamente dieci i giorni passati dal consiglio dei ministri di venerdì 13 che ha approvato il provvedimento.

Il testo, nonostante le rassicurazioni del governo, ha dovuto affrontare, e sta ancora affrontando, una vera e propria «vivisezione» da parte degli uffici giuridici del Quirinale. I colpi di bisturi del Colle si sono concentrati soprattutto sulle norme in materia di pensioni e di incompatibilità inserite all’interno della riforma. A cominciare da quella sull’abolizione del trattenimento in servizio che, applicata ai magistrati, avrebbe di colpo abbassato da 75 a 70 anni l’età del ritiro per i giudici lasciando scoperti oltre 400 posizioni, molte di vertice, nella macchina giudiziaria.

I magistrati, con la sponda del Quirinale, avevano chiesto un periodo di transizione fino al 2017 prima di far entrare in vigore la norma. Il governo si è fermato al 2016, ma ha accettato un altro «suggerimento», quello di far valere questa finestra non soltanto per i giudici che rivestono incarichi direttivi, ma per tutti.

Le altre eccezioni. C’è un’altra categoria che, dopo il confronto con il Colle, è stata messa al riparo dalla cesoia calata dal governo sulla burocrazia: quella dei militari. Nell’ultima versione del provvedimento è spuntata all’improvviso una norma che fa salvi fino al 2016 i collocamenti in ausiliaria e i richiami in servizio delle Forze Armate. Di che si tratta? Di un modo riconosciuto dal codice militare di permettere a chi è andato in pensione di continuare a prestare il suo lavoro, incassando anche una indennità, nei vari corpi.

Generali, colonnelli, tenenti, andati in pensione ma inseriti nelle liste di ausiliaria, possono essere richiamati e prorogare la loro permanenza al lavoro fino a 67 anni. Il decreto del governo li avrebbe obbligati tutti a lasciare i loro posti il prossimo 31 ottobre, data entro la quale, dice la riforma, dovranno cessare i trattenimenti in servizio. Non ci sono però solo i militari. C’è un’altra norma nel provvedimento del governo passata sotto attenzione e che invece ha fatto drizzare subito le antenne al Colle: quella che prevede il «divieto di incarichi dirigenziali a soggetti in quiescenza».

Come era stata scritta a Palazzo Chigi rischiava di avere l’effetto di una bomba termonucleare. Nella sua versione originale prevedeva che nessun soggetto pensionato potesse assumere incarichi dirigenziali, direttivi o cariche in «organi di governo» delle amministrazioni. Dove per amministrazioni pubbliche, in pratica, si intendevano tutte quelle inserite nell’elenco Istat, dai ministeri alla Corte Costituzionale, da Camera e Senato al più piccolo dei Comuni passando per le Authority indipendenti.

Messa così, insomma, la norma avrebbe rischiato di decapitare in un sol colpo buona parte dei vertici dell’amministrazione burocratica, dove spesso gli incarichi apicali vengono assegnati proprio a persone già in pensione.

La norma è stata «addolcita» laciando liberi gli incarichi gratuiti, stabilendo che le nuove regole si applicheranno solo per il futuro e non anche agli incarichi in corso e, soprattutto, facendo una vistosa eccezione per gli «incarichi e le cariche presso organi costituzionali». Anche perché, secondo alcune interpretazioni estensive, avrebbe potuto incidere persino sulla composizione della Corte Costituzionale.

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