Una riforma che ha il valore di referendum tra i democrat

di Giovanni Sabbatucci
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Lunedì 27 Aprile 2015, 23:56 - Ultimo aggiornamento: 28 Aprile, 08:16
La partita che si è aperta alla Camera sulla riforma elettorale ha una posta che va ben al di là del merito di un provvedimento pur importante in sé. Dal suo esito dipenderanno la vita del governo e quella della legislatura, nell’immediato le sorti della leadership di Renzi e gli stessi assetti del Partito democratico, la sua capacità di mantenere una vocazione maggioritaria senza troppo scoprirsi sul fianco sinistro.

Uno strumento come l’Italicum, concepito proprio per dare al sistema stabilità e governabilità, rischia così di diventare l’occasione per una resa dei conti all’interno della maggioranza, oltre che fra maggioranza e opposizioni. Un intreccio così stretto fra la materia elettorale (che non è mera tecnicalità, come ripetono spesso gli sprovveduti) e la lotta politica contingente che da essa è comunque condizionata non è certo cosa buona in sé, come dimostra la storia delle troppe riforme sbagliate o fallite che si sono succedute nella storia d’Italia (dalla legge Acerbo alla “legge truffa” e al Porcellum).

Come tutte le norme che riguardano le regole del gioco, le leggi elettorali andrebbero approvate con largo consenso e con l’occhio rivolto al futuro. Ma se oggi le cose non stanno così sarebbe ingiusto attribuirne la colpa al presidente del Consiglio e alla maggioranza che lo sostiene. Il testo che affronta in questi giorni l’esame della Camera ha ovviamente i suoi difetti e può legittimamente essere criticato. (Per molti, compreso chi scrive, sarebbe stato preferibile passare a un sistema collaudato come l’uninominale a doppio turno). E lo stesso vale per le riforme costituzionali in cantiere. Ma le critiche che oggi vengono rivolte, sia dal variegato fronte delle opposizioni sia dalla minoranza interna al Pd, all’impianto del progetto renziano (autoritarismo latente, eccessiva enfasi sulla leadership, espropriazione del diritto di scelta degli elettori, svilimento della funzione legislativa) hanno un forte sapore di strumentalità; e potrebbero essere indirizzate contro qualsiasi sistema diverso da quello proporzionalista puro e pienamente parlamentare che ha segnato la storia della prima Repubblica e che ora tornerebbe in auge, con il Consultellum, in caso di fallimento dell’Italicum.



Del resto, la riforma non è nata già compiuta, come Minerva dalla testa di Giove, in seguito a un ukase del governo. È stata a lungo discussa e in larga misura modificata proprio allo scopo di allargarne il consenso in Parlamento e nello stesso Pd. Non è facile spiegare come i parlamentari di Forza Italia abbiano potuto capovolgere il loro giudizio di merito sulla riforma, senza avanzare plausibili proposte alternative, in seguito a un evento del tutto estraneo alla materia come l’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella, causa della rottura del patto del Nazareno. E si stenta a capire come mai la minoranza dei democratici possa trovare inaccettabili soluzioni, come il turno di ballottaggio o la soglia di sbarramento abbassata al 3%, che essa stessa aveva a suo tempo approvato o lasciato passare senza proteste.

Il premio assegnato alla lista anziché alla coalizione vincente parve ai più, non molti mesi fa, una sostanziosa concessione strappata dal Pd a un Berlusconi riluttante (oltre che un antidoto contro le forzate alleanze-arcobaleno). E la tesi secondo cui la qualità della democrazia italiana dipenderebbe da un’applicazione più estesa di uno strumento come quello delle preferenze, già condannato dal voto popolare, sembra quanto meno azzardata.

C’è poi, non meno importante, una questione di metodo, che attiene al modo di operare del presidente del Consiglio, al suo procedere per strappi anziché per mediazioni: nel caso specifico, si discute del ventilato ricorso alla fiducia per far passare l’Italicum così com’è, senza esporlo ai rischi di un nuovo passaggio in Senato, dove probabilmente resterebbe incagliato. Una mossa senza dubbio irrituale (anche se non priva di precedenti) che non gioverebbe alla serenità del dibattito. Ma non esiste nessuna norma che possa impedire a un governo di giocarsi la sopravvivenza su una legge di sua iniziativa, ritenuta a torto o a ragione essenziale.

La riforma probabilmente passerà. Non solo per la divisione delle opposizioni e per la debolezza dei loro argomenti, non solo per la naturale riluttanza di molti parlamentari a interrompere anzitempo la legislatura. Ma anche perché la base del Pd non capirebbe i motivi di una prematura interruzione dell’esperimento-Renzi; e perché l’intero Paese, interessato ad altre e più concrete urgenze, non ha voglia di assistere a nuovi ribaltoni politici con conseguente azzeramento degli equilibri e necessità di ricominciare tutto daccapo. Poi ci sarà tempo per smussare i contrasti e per condurre in porto, magari con qualche intervento correttivo, la riforma del Senato: senza la quale lo stesso Italicum resterebbe monco e inefficace rispetto ai suoi scopi.

Ma sarebbe importante, non solo per il governo, affrontare i successivi passaggi avendo già in tasca un dispositivo elettorale che consentisse al Paese di lasciarsi alle spalle gli spropositi ultra-maggioritari del Porcellum senza cadere automaticamente nella frammentazione estrema garantita da un sistema iper-proporzionale come quello disegnato più di un anno fa non dal legislatore, ma da una sentenza della Consulta.