L’orizzonte di Renzi tra tattica e consenso

di Alessandro Campi
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Lunedì 5 Ottobre 2015, 22:42 - Ultimo aggiornamento: 23:52
L’obiettivo tattico che ha guidato Matteo Renzi nel corso degli ultimi mesi - dal grande accordo (fallito) con Silvio Berlusconi al piccolo accordo (ben riuscito) con Denis Verdini - è a questo punto abbastanza chiaro. Ma c’è anche un orizzonte strategico in quel che ha fatto finora?

Presa la guida del Partito democratico dopo un’aspra battaglia interna, la sua necessità primaria è stata quella di rendere inoffensiva l’opposizione della sinistra interna. Non poteva rischiare di vedere compromessa la sua leadership, partitica ma ben presto anche di governo, da una pattuglia di dissidenti mossa soltanto, ai suoi occhi, dallo spirito di rivalsa ed espressione per di più di una stagione largamente fallimentare.



Presa subito dopo la guida del governo con un colpo di mano parlamentare e senza passare dal vaglio popolare, l’altra sua necessità è stata quella di darsi - agli occhi degli italiani e dei suoi stessi elettori della sinistra - una patente di riformatore radicale che in qualche modo legittimasse la sua posizione a Palazzo Chigi e facesse dimenticare il modo poco ortodosso con cui aveva liquidato l’esecutivo di Enrico Letta.



Per conseguire questo duplice traguardo aveva però bisogno di un sostegno politico-parlamentare esterno al Pd che, da un lato, rendesse sulla carta superfluo l’apporto in voti dei suoi avversari interni (in particolare al Senato) e dall’altro desse respiro strategico e per così dire storico al suo vasto e ambizioso piano di riforme, a partire da quelle costituzionali.



Nacque così il Patto del Nazareno, rivelatosi però troppo impegnativo per Renzi. Sul piano politico, visto che il Cavaliere grazie a questo accordo ambiva a rilegittimarsi nelle vesti di statista. E sul piano dell’immagine, dal momento che militanti ed elettori della sinistra per quasi vent’anni si erano ideologicamente nutriti di antiberlusconismo.



Quando si è trattato di dare un sigillo istituzionale a quell’intesa, all’epoca della scelta del nuovo Capo dello Stato, tutti ricordano come è andata a finire: Renzi, qualunque cosa avesse promesso al leader di Forza Italia, ha preferito portato al Quirinale Sergio Mattarella. Una personalità cristallina, politicamente maturata nella vecchia Democrazia Cristiana, che nulla aveva mai avuto a che fare - antropologicamente prim’ancora che politicamente - col mondo berlusconiano. Un uomo per di più caratterialmente incline alla riservatezza e senza alcuna smania di protagonismo, che sul piano pubblico mai avrebbe fatto ombra al giovane capo del governo.



Con Berlusconi personalmente offeso per il tradimento e nuovamente all’opposizione, per risolvere i suoi problemi a Renzi è toccato battere un’altra via: quella classica del trasformismo parlamentare, che per definizione richiede spregiudicatezza e una forza persuasiva che non sempre si affida alla capacità argomentativa, anzi generalmente segue strade più prosaiche e opache.

Adombrando lo spettro di possibili elezioni anticipate, avendo del frattempo fatto approvare una legge elettorale che rimette nelle mani del leader di partito le candidature di deputati e senatori, giocando sullo sfilacciamento del fronte moderato, Renzi è riuscito – pescando persino tra gli scissionisti di Forza Italia guidati da Denis Verdini – ad aggrumare i numeri che gli servivano per sentirsi finalmente forte e sicuro. Nel Pd nessuno più è in grado di minacciare imboscate parlamentari e la riforma del Senato, il suo vero fiore all’occhiello, è a un passo dall’essere approvata anche con il consenso di un pezzo del centrodestra.



Quello che resta da capire - ed è il dubbio che Renzi dovrà presto sciogliere agli occhi degli italiani - è se questa sua straordinaria capacità di manovra tattica, che lo ha portato a farsi beffe di uomini a loro volta astuti e con una comprovata esperienza parlamentare, sia fine a se stessa, ovvero unicamente orientata al potere e alla gestione della contingenza, o nasconda un disegno politico organico e una visione di lungo periodo. I dubbi che vengono alle mente sono in effetti molti. Chiudendo con la demonologia berlusconiana, non dando a Verdini del mostro o dell’impresentabile, Renzi dimostra di essere senza remore o intende chiudere col clima di contrapposizione frontale che in Italia si è respirato per vent’anni? La sua spinta al rinnovamento è solo retorica giovanilistica o il tentativo di modificare – anche in chiave generazionale – equilibri di potere che in Italia sono per definizione statici e vischiosi? Le sue aperture verso l’elettorato centrista servono a raggranellare qualche voto di delusi del Cavaliere alle prossime elezioni o all’orizzonte c’è davvero quel “partito della nazione” di cui, dopo averlo annunciato, lui per primo ha smesso di parlare? Quando inveisce contro i privilegi della casta e delle corporazioni vuole solo titillare la rabbia degli italiani, come un populista qualsiasi, o ha in testa il disegno di un’Italia – in primis quella politica – basata sulla virtù, sul merito e sul senso del dovere?



Di politici brillanti e manovrieri che sono miseramente rovinati, spesso dopo aver suscitato grandi attese, la storia italiana è notoriamente piena. Anche se l’esperienza sembra dirci il contrario, sarebbe bello (e sommamente utile per il Paese) se per una volta il canovaccio non si ripetesse.