Il Quirinale e il senso del limite

di Alessandro Campi
4 Minuti di Lettura
Giovedì 30 Luglio 2015, 23:34 - Ultimo aggiornamento: 31 Luglio, 00:11
È nei momenti meno condizionati dall’ufficialità che spesso si trova il modo di esprimere in modo più compiuto e penetrante il proprio pensiero. È quel che è accaduto ieri al Presidente della Repubblica. Incontrando la stampa parlamentare per i tradizionali auguri estivi, Sergio Mattarella ha tenuto un discorso nel quale non si è limitato a richiamare l’attenzione su alcuni temi salienti (l’immigrazione, la corruzione, le riforme istituzionali, il populismo, il lavoro, l’Europa), ma ha anche chiarito - coi toni morbidi che caratterizzano il suo eloquio - come concepisce e come intende esercitare il suo ruolo.

E lo ha fatto senza risparmiare critiche, educate ma ferme, ad una visione della democrazia e della politica - personalistica e poco incline al compromesso - che ritiene sostanzialmente estranea ai valori fondanti la repubblica. Del rispetto di Mattarella per l’architettura istituzionale fissata dalla Costituzione (a suo giudizio da ammodernare, ma senza stravolgimenti) e per le prerogative sovrane del Parlamento si è scritto molto sin dal giorno del suo insediamento. La previsione unanime degli osservatori è stata da subito che con la sua elezione si sarebbe interrotto il ciclo politico-interventista del Quirinale: quella lunga stagione, iniziata con Scalfaro e durata sino a Napolitano, segnata dagli esecutivi tecnici o istituzionali ispirati dal Colle e dal potere di indirizzo politico di quest’ultimo. E in effetti ieri egli ha rimarcato chiaramente la sua contrarietà ad un’interpretazione della posizione e del ruolo del Presidente della Repubblica come regolatore o regista dei processi politici.



Sulle riforme istituzionali, ad esempio, si è limitato ad auspicare che vengano realizzate e che possano favorire, al tempo stesso, la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e l’efficienza dei meccanismi decisionali. Ma si è guardato bene dal presentarsi come il garante pubblico o l’ispiratore occulto di scelte riformatrici la cui responsabilità ricade solo sul Governo e sul Parlamento. Ha inoltre sostenuto che tutti i soggetti politico-istituzionali, a partire proprio dal Capo dello Stato, hanno limiti, doveri e regole di condotte che sono tenuti a rispettare.



Nessuna buona intenzione o finalità può giustificare il fatto, non infrequente nella politica italiana, che ci si attribuiscano competenze che non si hanno o che spettano ad altri. Esiste un equilibrio funzionale dei poteri, stabilito dalla Costituzione, che non può essere alterato se non correndo il rischio di mettere in crisi l’intero sistema. Da questo punto di vista è parso molto significativo il richiamo che Mattarella ha fatto al ruolo della Consulta (da cui non casualmente proviene), da anni oggetto di attacchi e contestazioni - prima da destra ora anche da sinistra - per certe sue decisioni non sempre gradite ai governi in carica. Proprio l’esistenza di “un accorto e felice sistema di equilibri e di controlli reciproci e di influenze vicendevoli tra organi e poteri dello Stato” è ciò che - nelle parole di Mattarella - rende pericolosa un’idea della democrazia basata su “un uomo solo al comando”.



Un passaggio che non pochi commentatori hanno interpretato come un riferimento critico, per quanto indiretto, a Matteo Renzi e alla sua visione della leadership: solitaria, autoreferenziale, solipsistica, eccessivamente monocratica. Mattarella - nel rispetto dei limiti e dei doveri imposti dalla Carta - non intende dunque svolgere alcun ruolo di supplenza istituzionale, né interferire sulla dialettica politico-parlamentare. Da qui l’indicazione che rispetto alle leggi che gli verranno sottoposte egli si limiterà, senza entrare nel merito o nei contenuti, ad un rigoroso vaglio formale, per valutarne eventuali profili di incostituzionalità, mancando i quali non potrà che firmarne la promulgazione. Il Capo dello Stato - ha detto - non dispone di alcun “potere di veto”. Anche questo si profila come un cambiamento di non poco conto se si considera quanto invece i precedenti inquilini del Quirinale un simile potere lo abbiano preteso ed esercitato: bloccando o minacciando di bloccare provvedimenti di legge ritenuti, più che incostituzionali, politicamente inopportuni, oppure entrando nel processo legislativo attraverso il meccanismo della moral suasion e del vaglio preventivo dei testi. La domanda che sorge spontanea è però quale spazio possa trovare, nel turbolento contesto politico italiano, una simile concezione neutrale-arbitrale del ruolo del Presidente della Repubblica, che Mattarella anche ieri ha voluto rimarcare. Il crescente spazio politico-decisionale conquistato dal Quirinale nel corso del tempo non è dipeso infatti da variabili caratteriali, come si ipotizzò nei casi di Cossiga e Scalfaro, o da un’interpretazione arbitrariamente estensiva dei poteri presidenziali (il Capo dello Stato notaio, a leggere con attenzione la Costituzione e considerando la prassi che quest’ultima ha ispirato, è poco più di un mito).



L’interventismo presidenziale - almeno per quello che riguarda l’ultimo ventennio, ma se ne trovano tracce consistenti anche nella Prima Repubblica - è stato la conseguenza spesso inevitabile degli squilibri del sistema politico. La forza (apparentemente eccessiva) del Capo dello Stato, in altre parole, è quasi sempre dipesa dalla debolezza degli altri attori politico-istituzionali, ad iniziare da quella ormai strutturale dei partiti, e dalle situazioni di crisi (politiche, economiche) che il Quirinale ha dovuto affrontare. Il che significa che i proponimenti di Mattarella potranno realizzarsi solo se in Italia la dialettica tra le forze politiche tornerà, prima o poi, ad una sua normalità, se il sistema politico-partitico ritroverà un suo autonomo punto di gravitazione e se si riuscirà a definire un rapporto nuovamente virtuoso tra ceto politico (ai diversi livelli della rappresentanza) e cittadini.



Diversamente, se il sistema continuerà a fibrillare, anche a Mattarella prima o poi toccherà - volente o meno - quel ruolo di supplente o di king maker già svolto in passato dai suoi predecessori.