Sfida per il premier/ Il conflitto fra le due sinistre: ultimo atto

di Giovanni Sabbatucci
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Domenica 23 Novembre 2014, 23:00 - Ultimo aggiornamento: 24 Novembre, 00:28
I dati abbastanza sconfortanti sull’affluenza alle urne nelle regionali in Calabria e soprattutto in Emilia-Romagna non faranno certo piacere a Matteo Renzi.

Pur considerando le circostanze speciali in cui si sono svolte le consultazioni (con le amministrazioni uscenti azzoppate da grandi e piccoli guai giudiziari) e tenendo conto della crescente impopolarità dell’istituto regionale, quei dati danno testimonianza di una diffusa crisi di fiducia che coinvolge anche le tradizionali roccheforti della sinistra ex comunista; e suonano come implicita smentita allo scenario ottimistico, da nuovo inizio, che il premier cerca di costruire attorno a sé (e che proprio ora potrebbe trovare conferma nella promozione europea della legge di stabilità).



Eppure fra i leader della sinistra europea Renzi gode in apparenza di una posizione invidiabile: occupa la poltrona di presidente del Consiglio e può vantare un risultato elettorale – conseguito a maggio nel voto per il Parlamento Ue - superiore a quello di tutti i partiti “fratelli”. In realtà è proprio il segretario del Pd a rischiare più di tutti: nelle prossime settimane dovrà giocarsi le sue possibilità di successo combattendo contemporaneamente su diversi fronti, a cominciare da quello di una sinistra che lui stesso è chiamato a guidare, se non altro in virtù dei numeri. Dovrà, in altri termini, non solo condurre in porto nei tempi fissati le riforme più importanti e caratterizzanti (Jobs Act e legge elettorale).



Ma dovrà anche convincere il grosso dei suoi potenziali seguaci che quelle riforme sono “di sinistra”, che di sinistra è lui stesso – come ha voluto ribadire nella sua risposta alle critiche del direttore di “Repubblica” – anche se le circostanze possono portarlo a trovare terreni di intesa su singoli punti con Berlusconi o con Squinzi: che sbaglia quindi chi, nella sinistra Pd o nella Cgl, lo dipinge come una sorta di infiltrato, portatore di un progetto centrista e falsamente modernizzante, avverso agli interessi dei lavoratori.



I precedenti in materia di duelli a sinistra naturalmente non mancano. L’intera storia della sinistra italiana può leggersi come storia di un interminabile conflitto fra due opzioni di fondo che assumono di volta in volta diverse connotazioni: riformisti contro massimalisti, ministeriali contro intransigenti, socialdemocratici contro comunisti, comunisti ortodossi contro extraparlamentari, infine difensori delle virtù della politica contro indignati a tempo pieno. Ma nel confronto che oggi oppone Renzi ai suoi avversari interni ci sono almeno due elementi di novità. Il primo riguarda il Partito democratico, che oggi è al governo in coalizione con altre forze, ma non è esso stesso un’accolta di gruppi diversi (com’erano l’Ulivo o l’Unione) e coltiva apertamente la sua “vocazione maggioritaria”: punta cioè a correre da solo per la conquista della maggioranza. Il che gli impone, in base alle leggi non scritte dei sistemi bipolari, di aprirsi anche a istanze diverse da quelle tradizionali della sinistra. Negargli questa possibilità, anzi questo obbligo, significa contestare in radice l’intero progetto di governo.

La seconda novità sta nel fronte degli oppositori. A preoccupare Renzi non è tanto la dissidenza della sinistra Pd, le cui possibilità di sfondamento elettorale in caso di scissione appaiono scarse. E’ piuttosto la critica dura che viene dal sindacato e segnatamente dalla Cgl, che, fin dal momento della sua fondazione nel 1906, ha rappresentato il più forte ancoraggio sociale dei partiti operai e anche il miglior alleato delle loro correnti più pragmatiche, da D’Aragona e Buozzi a Di Vittorio e Lama. Ora i tempi sono cambiati: il maggior sindacato italiano ha perso non da oggi presa sulla società (anche per il ridimensionamento numerico della sua base, pensionati a parte) e capacità di cogliere il mutamento, trovandosi spesso a combattere pure battaglie di arresto. Ma, assieme alle altre confederazioni nazionali, resta un interlocutore politico di peso oltre che un sicuro serbatoio di voti. Affrontare un conflitto col sindacato può essere ancora costoso per un partito che rivendichi la sua appartenenza alla sinistra. Massimo D’Alema, da segretario del Pds, preferì evitare lo scontro. Molti anni prima, più o meno trent’anni fa, Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, vinse di slancio la battaglia della scala mobile, ma non riuscì a sfondare, se non in misura marginale, nell’elettorato di sinistra. Renzi sembra avere in mano carte migliori. Ma dovrà dimostrare di saper replicare il risultato delle europee anche in elezioni “normali”; e tenere alto il livello consensi al Pd nelle sue tradizionali zone di insediamento. Anche per questo è importante il risultato delle regionali in Emilia-Romagna.



Le prossime settimane saranno comunque decisive non solo in ordine alle fortune politiche di Renzi e del renzismo. Altre e non meno serie sono le incognite. Se la tendenza alla disaffezione nei confronti della politica non si invertisse, se si dovessero approfondire le fratture tra le varie sinistre rappresentate in Parlamento e se nel contempo si allargasse il vuoto provocato nel centro-destra dalla crisi del berlusconismo, si aprirebbero, quasi per legge naturale, nuovi spazi per le correnti e i gruppi più lontani dalla pratiche e dai valori della democrazia rappresentativa: il qualunquismo tendenzialmente xenofobo oggi incarnato soprattutto dalla Lega, l’utopia antipolitica sempre più autoreferenziale e implausibile del Movimento cinque stelle, ma anche le frange eversive e violente che, cavalcando la protesta sociale, sono tornate a popolare le piazze italiane come non accadeva da anni. Una minaccia, questa, che nessuno può permettersi di sottovalutare.