Il Pd e Marino/ Roma rischia un ritorno al passato

di Mario Ajello
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Sabato 22 Novembre 2014, 00:04 - Ultimo aggiornamento: 00:11
Il rimpasto. Che sapore ha? Il sapore di qualcosa non più digeribile, per una città che deve e può guardare avanti e che non merita di soffrire di mal di pancia da pietanze scadute o di torcicollo.



Con l’occasione di un salvifico rimpasto nella giunta di Ignazio Marino, il Pd romano vorrebbe restaurare un primato dei partiti - o meglio di un partito, sia pur balcanizzato al proprio interno - infastiditi dal ruolo più autonomo e fruttuoso che negli ultimi vent’anni i sindaci sono riusciti a conquistarsi.



Indietro tutta, ecco l’antica morale di questo rimpasto. A Roma c’è un sindaco che attraversa un momento difficile. Che ha commesso errori (l’ultimo, la Panda), che ha sottovalutato problemi evidenti agli occhi di tutti (come le periferie) e che adesso, però, è stato spinto in un labirinto: se vuole prolungare la propria stagione di governo deve passare attraverso le forche caudine di una pratica da Prima Repubblica.



Il messaggio dal sapore antico è questo: Marino apra le porte della giunta comunale a chi deve decidere per lui, obbedisca ai diktat e ai dirigenti di partito. Insomma, anziché portare a casa un auspicabile rafforzamento della squadra che dia prestigio - con la scelta di nomi di alta caratura e di tecnici di sicura competenza - alla Capitale, si sta correndo il pericolo di uno sprofondamento nel passato. Morale: la vecchia pratica, uscita a suo tempo senza applausi dalla porta del rinnovamento della politica, adesso vorrebbe rientrare dalla finestra del partitismo più usurato.



Roma dunque è in bilico. E può cadere, se vincono le pratiche tradizionali, in un cono d’ombra che non dovrebbe essere il luogo naturale di una metropoli del suo rango. Il controllo sul sindaco - da parte di un partito che tra l’altro è frammentato e diviso ma attraversato da robusti appetiti comuni e condivisi - ha qualcosa non di vintage: di archeologico. È paleo-politica la pretesa di condizionare dai tinelli democrat la condotta, sia pur criticabile su certi punti, di un primo cittadino dei tempi nostri. Il rimpasto serve a rovesciare, con un brusco atto di discontinuità, proprio la volontà di tenere a igienica distanza le forze politiche e i loro interessi particolari. Il rischio della capriola all’indietro è riassunto dalle voci insistenti su un ingresso in giunta, magari come vicesindaco, di Lionello Cosentino, segretario provinciale del Pd e gran sacerdote di vecchi riti in non indimenticabili stagioni.



Così, dopo la rupture, si vuole tornare all’anno zero, al pre-1993, a quando la "rivoluzione" dei sindaci scelti con elezione diretta dai cittadini, non era ancora cominciata e dominava ancora quella che allora poteva chiamarsi partitocrazia e oggi al massimo, nella ripetizione della storia sl ribasso, somiglia a una “partitinocrazia” più piccola di quella originale ma altrettanto famelica. Agli errori commessi dal sindaco - che con evidenza ci sono stati - si vuole rimediare con errori ancora più plateali. E non giustificati da una realtà che è cambiata, anche se in certi sottoscala si fatica ad accorgersene.



La parte buona di Marino, quella discontinuità rispetto alle logiche di sempre che gli ha permesso di prendere decisioni fuori da pressioni di lobby, di clientele e di consorterie, è la stessa che più infastidisce i dirigenti locali del Pd e con più urgenza va rimossa per ripristinare il tran tran degli interessi interni al quadro politico ma estranei alle esigenze della collettività. Sui grandi progetti occorrerebbe concentrarsi. Tutto il resto non è noia, caccia alle poltrone. Ma chi fa l'assessore o chi fa il vicesindaco non è il problema più cruciale dell’Urbe, bisognosa di un rilancio e non di sprofondare nel basso impero.