L'analisi/ Il nuovo partito di Matteo deve ancora nascere

di Stefano Cappellini
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Lunedì 29 Settembre 2014, 22:19 - Ultimo aggiornamento: 30 Settembre, 01:33
Lo scontro nel Pd sulla riforma del lavoro molto pi che una baruffa tra maggioranza e minoranza di un partito, come sempre ce ne sono state e sempre ce ne saranno.

Fosse così, sarebbe facile: la maggioranza propone, tratta e poi decide, la minoranza fa la sua battaglia, lavora a cambiare i rapporti di forza ma intanto si adegua ai numeri. Persino su un tema così delicato per una grande forza di sinistra, il destino dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, sarebbe possibile immaginare una dinamica di questo genere. Ma lo scontro nel Pd è molto più profondo e nasce da un deficit di identità che la vorticosa ascesa di Matteo Renzi ha solo mascherato ma non risolto.



Conquistando prima la segreteria e poi la presidenza del Consiglio, Renzi ha chiuso una lunga stagione di equivoci, quella in cui leadership e premiership sembravano destinate a non coincidere e anzi a confliggere. Ma proprio le ragioni che hanno decretato il trionfo di Renzi sono le medesime che oggi rendono così faticoso il suo governo del timone del partito. Il premier si è imposto per la sua carica di novità rispetto a una nomenclatura che aveva ormai accumulato una lunga serie di sconfitte - ultima il fittizio primato alle politiche del 25 febbraio 2013 - e che non aveva ormai alcuna credibilità per continuare a riproporre quel patto di sindacato tra ex Pci ed ex Dc che si era spartito cariche e ruoli per vent’anni. Sbaglia chi sostiene che la differenza tra le primarie perse da Renzi con Pier Luigi Bersani e quelle stravinte contro Cuperlo e Civati stia nella composizione della platea dei votanti. La verità è che Renzi ha perso finché il popolo democrat ha voluto concedere un’ultima opportunità alla più rassicurante vecchia guardia e ha vinto quando lo stesso popolo ha deciso che la vecchia guardia non meritava più alcun credito. I contenuti della proposta renziana sono rimasti in secondo piano sia nella tornata perdente che in quella vincente, e persino nel 41 per cento raccolto alle europee, stavolta sì con un consenso davvero trasversale, ma ora tornano a chiedere il conto. E Renzi non può cavarsela affidandosi alla «politica d’immagine», che pure ha rivendicato come necessaria nel suo discorso alla direzione Pd di ieri.



La verità è che Renzi si è ritrovato a capo di un partito costruito da altri nei suoi gruppi parlamentari, agitato da una minoranza divisa che sa cos’era ma non sa più cosa vuole e governato da una classe dirigente che, in buon parte, fino al giorno prima dell’incoronazione dell’ex sindaco di Firenze era saldamente ancorata alla gestione precedente e che ora, se la primazia interna fosse ancora in quelle mani, sosterrebbe con pari convinzione le tesi opposte a quelle di oggi. La spregiudicatezza con cui in molti sono passati armi e bagagli sul carro renziano ha permesso al premier di ribaltare, dopo i rapporti di forza nel Paese, anche quelli interni ma gli ha restituito un partito forse più docile, certo più debole e smarrito. L’operazione di trasformismo ha surrogato quella battaglia culturale che Renzi ha sempre affidato all’estemporaneità delle sue proposte ma mai impostato come creazione di un partito suo fino in fondo, non per imperio ma per struttura, pensiero, militanza. Ecco perché a Renzi capita ancora l’incredibile situazione di trovarsi a parlare del Pd e della sinistra in generale come altro da sé, cosa che poteva al limite avere un senso quando era il primo oppositore di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, ma che suona semplicemente surreale ora che lui è il leader e ha il diritto e il dovere di guidare la comunità che dirige verso obiettivi condivisi, tanto più che l’esecutore del progetto può essere lui medesimo, nei suoi panni di presidente del Consiglio.



Renzi paga anche il fatto di essere arrivato a Palazzo Chigi senza passare dalle elezioni e, per rimediare, ha a disposizione l’arma del ritorno alle urne. Al momento, peraltro, non ha avversari in grado di competere. Ma se non affronta la fatica di costruire il Pd con armi diverse dall’esuberanza mediatica in cui eccelle, se non formerà una classe dirigente forgiata su idee e consenso reale e non sulla cooptazione (magari grazie a un nuova infornata di nominati in Parlamento grazie all’Italicum), si troverà nella spiacevole condizione di dover assecondare il parere del suo grande avversario D’Alema almeno su un punto. Qualche anno fa, poco dopo la sua nascita, l’ex presidente del Consiglio definì il Pd «un amalgama mal riuscito». Oggi l’amalgama è cambiato negli ingredienti, non ancora nella riuscita.