Partiti e sfiducia/ Il film del ’93 e l’alternativa che non c’è

di Stefano Cappellini
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Lunedì 24 Novembre 2014, 22:24 - Ultimo aggiornamento: 25 Novembre, 00:18
Ci sono evidenti e comode spiegazioni della ondata di astensionismo che ha caratterizzato il voto regionale.

La disillusione verso le promesse da campagna elettorale, la stanchezza nell’esercizio di un voto tanto frequente nel calendario quanto inefficace nei risultati, l’indignazione per le vicende giudiziarie che hanno gravato sulle amministrazioni chiamate a rinnovarsi. Tutto vero. Sarà però bene non fermarsi a queste motivazioni, perché di disillusione, stanchezza e indignazione è ricca la storia della Repubblica senza che questi sentimenti abbiano in passato spinto sette elettori su dieci - come domenica in Emilia-Romagna - a disertare le urne.

Questo clima di profonda disaffezione riavvolge una volta per tutte il nastro della Seconda Repubblica e sembra riportarci, come in un dispettoso gioco dell’oca, alla situazione del 1992-93. Le analogie con quella stagione sono molte e significative: un Paese squassato dalla crisi economica e monetaria, una classe politica delegittimata dalle inchieste, mezzo Paese privo dei partiti di riferimento - sciolti, implosi o agonizzanti.



E ancora: una sinistra che pare senza avversari (ma allora - qui la differenza più grande - non era al governo né ci sarebbe andata), Berlusconi nella parte della Dc e la Lega nella parte della Lega. Proprio in quegli anni si è costruita la malferma architettura istituzionale che continua a franare senza nemmeno più bisogno di picconate ed è lì, in quella temperie, che si sono aggrumati i falsi dogmi che hanno alimentato il disastro attuale e, insieme agli scandali dell’ultima ora, posto le basi del fallimento che ha ipernutrito le file del malcontento.

Il primo: il dogma federalista. Si diceva allora: la salvezza è nelle istituzioni locali. Bisogna decentrare, devolvere, delegare. Per alcuni anni chi non si proclamava federalista era additato come un passatista, un reazionario, un disadattato. Si è cambiata parte della Costituzione con una riforma pasticciata che non ha smesso di fare danni, sono state spostate in periferia immani risorse, affidate a un ceto politico che facendosi scudo della legittimazione diretta dei governi regionali ne ha fatto sciupìo e razzìa, si sono moltiplicati i centri decisionali e di spesa proprio mentre il processo di governance europea avrebbe imposto direzione contraria. Il risultato è che oggi gli italiani votano ancora in buon numero per eleggere il lontano Parlamento di Strasburgo mentre rigettano la partecipazione all’elezione del presidente di Regione.



Il secondo dogma: i partiti sono finiti, tocca alla società civile, alle persone. Ma, dopo due decenni di filosofia della ”gente”, gli elettori restano a casa perché non trovano un’offerta politica degna delle proprie idee e aspirazioni, dignità che in tutte le democrazie si dispiega solo in un sistema di partiti funzionante. Senza, si creano vuoti che non possono essere colmati con il mito delle discese in campo, perché dopo quella, irripetibile, di Silvio Berlusconi, le altre si sono rivelate bolle speculative scoppiate ancor prima di gonfiarsi. Così, nonostante il picco di discredito per la politica politicante, a pagare il dazio maggiore nelle urne sono proprio quelle forze cresciute anche con il progetto di dare rappresentanza alla pancia anti-politica del Paese.



Forza Italia è un guscio vuoto senza Silvio Berlusconi, i Cinque stelle non trovano forza e collocazione in uno scenario che, in teoria, dovrebbe vederli furoreggiare e si crogiolano nell’analisi del voto la più puerile, ritenendo di essere stati puniti per essere entrati nel Palazzo anziché, com’è evidente, per esserci entrati senza sapere come e dove mettere mano. A resistere al ciclone astensionista sono invece i due partiti - Pd e Lega - più strutturati e presenti nel territorio, gli unici le cui leadership - seppure post-ideologiche - sono figlie di battaglie interne reali e non di unzione sacrale.



Sbagliano gli avversari di Matteo Renzi nel Pd nel cercare di addebitargli la fuga dalle urne come fosse una questione tutta interna alla sinistra, un problema di «base del partito», come dicono rispolverando l’annosa espressione. Il Pd di Renzi ha eletto due presidenti su due, incassato un altro 40 per cento e può ben dirsi vincitore, tanto più che il film delle due sinistre è per ora rimasto un trailer senza seguito. Il problema è, casomai, di sistema. E qui sbaglia Renzi a definire l’astensionismo un «problema secondario». È in discussione una legge elettorale, l’Italicum, che pretende di portare l’Italia in un’epoca di bipartitismo, sulla base del terzo e ultimo dogma figlio della Seconda Repubblica, l’idea che l’assetto politico di un Paese possa essere conculcato a forza da una legge elettorale. Ma come possa funzionare un bipartitismo di cui non si intravvede l’altra supposta metà, cioè una grande forza governista di centrodestra, un bipartitismo dove l’alternativa al partito pigliatutto di Renzi è il lepenismo di Salvini o lo sfascismo di Grillo, come possa questo bipartitismo riportare i cittadini a credere nella liturgia del voto, pilastro della democrazia, sono tutte domande che meriterebbero una risposta più articolata di qualche slogan.