LA SPONDA TEDESCA
La pressione su Angelino Alfano è forte affinchè completi lo strappo, ma nel segretario del Pdl è altrettanto robusta la preoccupazione di mettersi alla guida di un gruppo che, senza e contro Berlusconi, dovrebbe guadagnarsi uno spazio sinora negato ad altri autorevoli personaggi. Nel castello di Meise, che ieri l’altro ha ospitato alle porte di Bruxelles il vertice dei popolari europei, Alfano è arrivato come presidente della Fondazione Alcide De Gasperi e forte della sponda della tedesca Merkel che da mesi si interroga su come arginare il ruolo del Cavaliere nel gruppo italiano che compone il Ppe. A metà novembre i vertici del partito popolare europeo si incontreranno anche per affrontare il nodo del possibile cambio di nome che Berlusconi darà al Pdl riportandolo all’originario Forza Italia. Malgrado il pressing dei tedeschi e il surplace dei belgi, sembra però difficile che la pattuglia italiana possa essere emarginata. L’investimento fatto su Monti, e non decollato, pesa ancora, al punto che ad Alfano è stato consigliato di «mettersi in proprio ma di non fare subito un partito» in modo da non doversi contare a primavera.
Nel Ppe a fianco di Berlusconi ci sono gli spagnoli e gli ungheresi che, a pochi mesi dal voto, considerano un suicidio privarsi nel parlamento di Strasburgo del contributo degli eletti nella fila berlusconiane. Letta, che da giovane e sino al ’95, è stato segretario dei giovani del Ppe, si tiene formalmente lontano dalla disputa memore anche del ”no” tedesco che ben prima del 2001, l’allora cancelliere Kohl diede a Romano Prodi, e agli allora parlamentari europei Castagnetti e Bianco, all’ingresso di FI nel Ppe.
Dispute europee a parte, resta il problema della tenuta del governo Letta qualora il Pdl dovesse tornare a Forza Italia rimettendo a Berlusconi tutte le deleghe. Compresa, ovviamente, quella non da poco di comporre le liste. A palazzo Chigi continuano a sostenere che la maggioranza «è cambiata con il voto del 2 ottobre» e che comunque «il governo andrà avanti» anche se una pattuglia di scissionisti formerà «un consistente» gruppo al Senato. Ipotesi possibile, ma che rischia di essere sufficiente per durare ma non per fare riforme da larghe intese. A cominciare da quelle istituzionali, per le quali si vorrebbe arrivare ad un quorum dei due terzi per evitare il referendum. Ciò che è successo pochi giorni fa a palazzo Madama, dove la maggioranza l’ha sfangata per soli 4 voti, è però una spia della possibile fragilità della maggioranza che rischia di peggiorare dopo il voto sulla decadenza del Cavaliere, il congresso che incoronerà Matteo Renzi come segretario del Pd e il consiglio nazionale del Pdl che l’8 dicembre potrebbe concludersi con un altro «ma che fai, mi cacci?».