I leader e la protesta/ La liquidità del partito degli scontenti

di Alessandro Campi
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Sabato 22 Novembre 2014, 00:02 - Ultimo aggiornamento: 00:11
Per capire quanto siano fragili il sistema politico italiano e i soggetti che operano al suo interno, bisogna andare indietro di qualche mese, sino alle elezioni europee del maggio 2014.



Come si ricorderà, il dato saliente di quell’appuntamento – al quale aveva partecipato meno del 60% degli aventi diritto al voto – era stato il 40% dei consensi ottenuto dal Pd: un’affermazione politica della sinistra, ma soprattutto una vittoria personale di Matteo Renzi.



Il movimento di Beppe Grillo, con oltre cinque milioni e mezzi di voti e una percentuale pari al 21%, aveva dimostrato dal canto suo di non essere una realtà effimera. Infine, c’era stato il 16,8% di voti conseguito da Forza Italia: poco rispetto ai fasti del passato, tanto considerate le traversie politico-giudiziarie del suo leader.



Da quei risultati è passato poco tempo. E mentre si sta per tornare al voto, per un turno amministrativo che avrà il suo focus nel voto regionale in Emilia Romagna e in Calabria e che potrebbe rivelarsi un test interessante a dispetto del numero ridotto di votanti coinvolti, viene spontaneo riflettere su quanto siano nel frattempo cambiati lo scenario politico e i suoi attori principali.



Il perdurare della crisi economica, per cominciare, ha seriamente scalfito l’immagine vincente del presidente del Consiglio: il suo ottimismo, che avrebbe dovuto essere contagioso, si è scontrato con la realtà di un Paese che appare più rassegnato e sfiduciato che impaurito. Al tempo stesso, si sono acuiti – sino a far adombrare la minaccia di una scissione – i contrasti interni al Pd. Una battaglia, quella contro la minoranza di sinistra, che sembrava vinta con la messa in disparte di tutto il vecchio gruppo dirigente d’estrazione comunista, si è trasformata in una guerra di logoramento, grazie soprattutto alle divergenze in materia di lavoro. Infine è all’improvviso finita la pax sociale, con un susseguirsi di scioperi e contestazioni di piazza che non lascia presagire nulla di buono, soprattutto per il governo.



Ma il fatto veramente nuovo è rappresentato dall’appannamento che sembra aver colpito Grillo e Berluscconi, come se – a dispetto dei voti posseduti – non avessero più un ruolo chiaro da giocare. Nella partita politica contro Renzi, il loro posto sembra essere stato occupato, sul piano politico-mediatico, dai due emergenti Matteo Salvini e Maurizio Landini. Il primo ha rilanciato la Lega sulla base di una piattaforma propagandistica che fa leva sul risentimento e le paure degli italiani. Il secondo si è ritagliato, incarnando il malumore delle piazze e lo spirito di rivolta che cova nel Paese, un ruolo da antagonista politico del governo che nessun partito, tra quelli presenti in Parlamento, sembra in grado di svolgere.



Mentre Berlusconi ancora va predicando la riunificazione del centrodestra sotto la sua leadership, Salvini ha scelto la via della competizione interna a quell’area, avendo lui l’ambizione di diventarne la guida o il futuro candidato unitario. E lo ha fatto non convergendo verso il centro o appellandosi al moderatismo, ma radicalizzando le sue posizioni in materia d’immigrazione, lasciando da parte la retorica padanista sino a farsi difensore degli interessi dell’Italia contro l’Europa dei banchieri, soffiando sul fuoco del disagio sociale (soprattutto nelle aree metropolitane), riportando a destra la polemica contro gli sprechi della politica che il Cavaliere aveva lasciato a Renzi, cavalcando la scena mediatico-televisiva con un’assiduità eguale e contraria a quella di quest’ultimo, giocando anch’egli in modo efficace la carta del rinnovamento politico-partitico, del giovanilismo tecnologico, dell’informalità nell’abbigliamento e della schiettezza nel linguaggio.



Tanto è bastato per salire nei sondaggi (sino alle due cifre) e soprattutto per dare l’impressione che in Italia, dall’esplosione del centrodestra storico, è nato un nuovo soggetto politico di destra radicale che pone a quella moderata, popolare e liberale un bel dilemma: allearsi con la prima, sino a subirne il condizionamento e l’egemonia ideologica, o rinunciare ad ogni accordo o collaborazione andando incontro ad una sconfitta certa con la sinistra a sua volta divenuta moderata e liberale?



Quanto a Landini, ha coperto il vuoto di leadership e di rappresentanza politica che si era creato a sinistra del Pd, dopo l’incolore stagione del vendolismo. E lo ha fatto puntando tutto su un linguaggio aggressivo, su uno stile rabbioso e concitato, attaccando il governo di Renzi con una virulenza che gli oppositori interni di quest’ultimo, condizionati comunque dalla disciplina di partito e dal proprio destino parlamentare, non si sono mai sognati di utilizzare.



Anch’egli ha capito l’importanza di non trascurare nessun appuntamento televisivo. Nell’epoca del compromesso tra avversari e delle grandi coalizioni parlamentari, Landini ha scelto la via del conflitto e della divisione ideologica, galvanizzando un mondo che a certe suggestioni non ha mai rinunciato e che sin qui ha subito Renzi alla stregua di una nemesi storica o di un’invasione aliena. Il futuro di Landini, anche alla luce di alcuni precedenti (benché non propriamente fortunati), si può dire segnato: da sindacalista diverrà capo partito, creando un potenziale polo d’attrazione anche per gli attuali dissidenti del Pd.



La questione che si pone, rispetto ai cambiamenti di scenario appena descritti, è se essi troveranno un qualche riflesso già nel voto di domenica prossima. Nelle condizioni attuali sembra davvero difficile per il Pd ripetere l’exploit delle europee, anche se finirà lo stesso per accaparrarsi entrambe le regioni in palio. Quello che potrebbe crescere, stante anche il perdurare degli scandali e delle inchieste legate alla mala gestione dei denari pubblici, è il partito degli arrabbiati. È facile ipotizzare un aumento degli astenuti e dei non votanti. Ma sarà interessante vedere quanti voti di protesta riuscirà invece a intercettare Salvini con la sua Lega cosiddetta nazionale e soprattutto se si verificherà il sorpasso nei confronti di Forza Italia.



Quello che sembra scontato è che gli arrabbiati stavolta non si rivolgeranno a Grillo: in meno di due anni per molti italiani sembra diventato anch’egli un pezzo del sistema che ha sempre contestato. E questo la dice lunga sia sulla difficoltà della politica odierna a radicare progetti di lungo respiro, se non affidandosi alla popolarità di questo o quel leader, sia sugli umori ormai divenuti scostanti e capricciosi degli italiani, che dei leader in questione si disamorano con la stessa velocità con cui se ne sono invaghiti.