Lezione costituente/ L’immunità e il coraggio che manca alla politica

di Carlo Nordio
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Mercoledì 5 Agosto 2015, 23:18 - Ultimo aggiornamento: 23:58
Il ministro della Giustizia ha detto che i tempi sono maturi per una modifica della legge sull’immunità parlamentare. Lo ha fatto prospettando la devoluzione a un organo terzo - la Corte costituzionale – della competenza a decidere sull’eventuale arresto di un membro delle Camere.



Giustamente si è replicato che tale soluzione non solo conferirebbe alla Consulta un’attribuzione impropria, ma rappresenterebbe una sorta di vereconda e timida ritirata della politica davanti ai suoi compiti supremi. A parte ciò, il ministro ha fatto bene a porre il problema. Ancor meglio ha fatto Renzi a dire chiaro e tondo che il Senato non può fare il passacarte delle Procure. Credo che, per comprendere la serietà del problema, sia utile qualche considerazione retrospettiva. Noi non sappiamo se siano i tempi a forgiare gli uomini, o viceversa gli uomini a determinare i destini dei tempi. Tuttavia la storia ci insegna che gli intelletti più robusti e le energie più vigorose si manifestano nei momenti difficili: guerre, carestie, rovine.



La pace e il benessere hanno un costo salato: deprimono le intelligenze e placano le volontà. Ciononostante è meglio tenerci la pace, il benessere e i politici che abbiamo, piuttosto che auguraci la guerra, la povertà e i politici di una volta. Anche se quelli di una volta erano cervelli fini. Si chiamavano De Gasperi e Togliatti, Nenni e Saragat, Terracini e Calamandrei. Sono i padri della Repubblica. Sono i padri della Costituzione.






Benché idealisti - nel senso che erano innamorati delle loro idee - avevano un forte senso pratico. E fu questo senso pratico a convincerli della necessità della cosiddetta immunità parlamentare. Vale a dire il principio che nessun membro eletto dal popolo potesse essere incriminato o giudicato senza l’autorizzazione dell’Assemblea di appartenenza.



Proprio perché avevano conquistato la libertà politica attraverso il carcere e la lotta, sapevano bene quanto essa fosse (e sia) vulnerabile ed esposta a pericoli. Anche quelli meno cruenti del manganello o dell’olio di ricino, ma non per questo meno insidiosi. Per esempio quello delle toghe.



Non si facevano illusioni. Sapevano perfettamente che dietro questo paravento ideale si sarebbero riparati ladruncoli e truffatori, contrabbandieri e falsari, pirati della strada e forse violentatori di bambini. Ma ne accettarono il rischio perché la contropartita sarebbe stata ancora più inaccettabile. La contropartita sarebbe stata quella di lasciare a qualche magistrato, magari prevenuto, politicizzato o impazzito, il potere di condizionare il parlamento inquisendo o arrestando qualche suo componente.



Fu così che nacque l’articolo 68 della Costituzione. Di esso si è fatto uso e abuso, talvolta ai limiti della vergogna. Ma, visto retrospettivamente, fu una buona salvaguardia della volontà popolare. I nostri padri costituenti avevano visto giusto. Avevano avuto ragione. L’immunità parlamentare fu soppressa nel 1993, in piena tangentopoli, quando la politica fu investita da una bufera giudiziaria che invece di farla riflettere la fece dissolvere. Fu una “degringolade” improvvisa e inattesa, paragonabile a quella, di cui peraltro era figlia, del muro di Berlino.



Aggravata dalla frenesia emotiva di una catarsi palingenetica, che ispirò alle menti più deboli l’idea suicida di una espiatoria rassegnazione. I parlamentari rinunciarono alle proprie immunità senza domandarsi nemmeno se ne avessero avuto il diritto. Se cioè quelle immunità fossero state concesse, come i beni indisponibili, non a favore delle loro rispettabili persone, ma a tutela della volontà popolare di cui erano espressione.



Volontà che meritava di essere garantita anche contro le inchieste di un motivato procuratore.
Oggi i tempi sono maturi, ha detto il ministro, per una riflessione. Bene. Rifletta e inviti a riflettere le anime belle del giustizialismo giacobino sulla saggezza dei nostri padri costituenti.