Le due destre/La lezione francese per moderati senza patria

di Giovanni Sabbatucci
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Lunedì 23 Marzo 2015, 22:41 - Ultimo aggiornamento: 24 Marzo, 00:21
Che cosa succede a una democrazia quando gli elettori, titolari della sovranità popolare, consegnano il Paese a una forza non democratica? È l’eterno paradosso a cui sinora nessuno ha saputo trovare soluzione. Possiamo però consolarci pensando che quella di cui sopra è un’ipotesi estrema: nelle società sviluppate di fatto non si realizza mai, dal momento che la gran massa dei cittadini mostra di solito un tasso di buon senso più alto di quello che le viene comunemente accreditato. Nemmeno nella tragica Germania dei primi anni Trenta, finché si votò liberamente, Hitler arrivò a conquistare da solo la maggioranza assoluta dei consensi (anche se arrivò a un impressionante 37%). Nella Francia che domenica scorsa ha votato per le elezioni amministrative, l’elettorato ha punito, com’era largamente scontato, il Partito socialista al governo; e ha sostanziosamente premiato, come pure era previsto, il Front National di Marine Le Pen (che comunque non è Hitler), con un sonante 25%. Ma, smentendo i sondaggi, non gli ha consentito di diventare la prima forza politica di Francia, preferendo l’usato sicuro di una coalizione centrista guidata dall’Ump di Nicolas Sarkozy: un leader mai troppo popolare, seccamente sconfitto alle presidenziali di tre anni fa e dato da molti per politicamente finito. Certo, un quarto del voto nazionale andato a un partito dai marcati tratti xenofobi rappresenta un risultato oggettivamente clamoroso.

Un’offesa al dolore dei familiari, della città, del Paese tanto cinica quanto stupida. Un partito che si colloca con almeno un piede fuori dai confini della legittimità repubblicana. Ma quello stesso risultato, che qualche anno fa avrebbe messo in allarme governi e opinioni pubbliche di tutta Europa, dimostra oggi che la crescita delle forze estreme in un una democrazia rappresentativa incontra limiti insuperabili. Anche in momenti di crisi come quello che buona parte dell’Europa sta vivendo, anche in situazioni di emergenza come quella che si è creata in Francia dopo i sanguinosi attentati del 7 gennaio, le spinte identitarie e le richieste di sicurezza trovano il loro principale destinatario nelle forze politiche che, per vocazione e per tradizione, presidiano abitualmente l’area dell’opinione moderata, cercando di rappresentarla e di darle voce.



Tanto più in vigenza di un sistema elettorale che tende a penalizzare in termini di seggi le ali estreme e a premiare, grazie alla logica del ballottaggio, le forze più vicine al centro. Se tutto questo è vero, c’è materia di riflessione anche riguardo al caso italiano. Le differenze, ovviamente, non mancano. Da noi la coalizione di centrosinistra, guidata da un leader giovane e ancora percepito come “nuovo”, non sembra al momento temere insidie oltre a quelle, superabili, provocate dalle sue divisioni interne. Mentre il centrodestra è debole e diviso come mai era stato da quando Berlusconi, nel 1994, inventò dal nulla un nuovo partito e una coalizione capace di affermarsi. Ora il leader è stanco e usurato, non solo per ragioni anagrafiche. Il suo partito è spaccato in fazioni contrapposte; pezzi importanti della ex Forza Italia sono nella maggioranza che sostiene il governo. E dalle file degli alleati emerge il progetto egemonico di Matteo Salvini, che si propone come leader dell’intera destra italiana e intende rifondarla sulla base di un modello nazional-populista e lepenista.



Un modello che in Italia, e in buona parte d’Europa, non ha alcuna possibilità di diventare vincente e di trasformarsi in progetto di governo.
Salvini certamente lo sa. Ma, come molti politici di professione, privilegia l’obiettivo a breve termine (il rafforzamento della sua leadership) rispetto a quello strategico (il successo nella competizione per la guida del Paese), e in questo modo contribuisce al blocco del sistema politico, frammentato in gruppi irresponsabili e difficilmente coalizzabili proprio perché privi di prospettive di governo. È la destra di opposizione a vocazione governativa che dovrebbe preoccuparsi di offrire ai suoi elettori una piattaforma moderata, alternativa a quella del centrosinistra a guida renziana. Ma quella destra risulta al momento introvabile.