L’altra sinistra, i nostri podemos disfatti nelle urne

di Stefano Cappellini
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Martedì 2 Giugno 2015, 22:14 - Ultimo aggiornamento: 23:58
Ci hanno provato alle europee con il traino di Tsipras. Hanno sperato dopo la vittoria di Syriza in Grecia. Hanno aperto la vela per intercettare il vento spagnolo di Podemos. Ma per la sinistra un tempo detta radicale non c’è verso: ogni tornata elettorale è peggio della precedente.

Hanno manifestato sul lavoro, protestato sulle pensioni, sono insorti al fianco della scuola. Niente da fare. Aumenta il mercato degli scontenti, si allarga l'area di dissenso verso il governo ma di tutte le risposte che gli elettori danno per marcare il loro malumore - l'astensione, la dispersione, Grillo, la Lega - l’unica non presa in considerazione pare essere la croce in cabina sui raggruppamenti che l’area a sinistra del Pd costruisce con aspettative inversamente proporzionali ai risultati.



L'elenco delle disfatte è ormai lungo, parte dal naufragio della Sinistra Arcobaleno, passa per il disastro Ingroia e arriva fino alla fresca delusione della Liguria, dove la candidatura del civatiano Luca Pastorino avrebbe dovuto rappresentare il laboratorio degli anti-Renzi di sinistra, i quali speravano - ben più che nella sconfitta di Raffaella Paita - in un'affermazione a doppia cifra che testimoniasse la bontà della strada intrapresa. È arrivato un deludente 9 per cento, modesto non solo sulla base delle previsioni e delle forze messe in campo (ai partiti di area si è aggiunta la mobilitazione dei fuoriusciti Pd) ma soprattutto per le potenzialità di un mercato elettorale come quello ligure, storicamente non certo ostile. Non parliamo poi dei risultati nel resto del Paese - dove tra Sel, residui di rifondazioni e altre Umbrie - le percentuali vanno dal 3 per cento in giù.



In questa crisi a oltranza ha sicuramente un peso determinante la sfiducia ormai cronica in quella galassia di sigle e siglette sopravvissute alla fine del centrosinistra di era ulivista: i leader in campo sono più o meno gli stessi, solo con più anni e meno credibilità. L'idea che a quella nomenclatura basti mettere un vestito nuovo, magari con una griffe straniera, non convince nemmeno i militanti di un tempo, figurarsi nuovi elettori. Quando poi a questi leader prova a sostituirsi la società civile, l’esito non è migliore, come racconta la serie di bisticci sui seggi e scissioni in Europarlamento.



Non è però solo un problema di leadership e contenitori. Nell'elettorato italiano c'è stato in questi ultimi anni un vero smottamento, come mai era avvenuto in precedenza, nemmeno negli anni della Seconda Repubblica. Lo hanno capito quasi tutti i soggetti in campo, tranne gli orfani del bertinottismo. I quali continuano a muoversi solo secondo le vecchie logiche dei vuoti da riempire. Il ragionamento è: siccome c'è Renzi al governo, e siccome il suo Pd si è spostato al centro, ecco che si apre una prateria a sinistra. Ma il richiamo alla mozione degli affetti e agli album di famiglia non trascina più nessuno alle urne. Ci sarebbero i programmi. Ma anche qui non è così semplice e qualcuno prima o poi dovrà interrogarsi sul perché le stesse proposte che, avanzate da Pablo Iglesias e Alexis Tsipras, trascinano le folle alle urne, in Italia, in bocca agli aspiranti podemos tricolori, suonano come un disco rotto.