Democrazia in crisi/ Dai populismi la sorpresa di un nuovo ciclo politico​

di Francesco Grillo
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Domenica 4 Ottobre 2015, 23:13 - Ultimo aggiornamento: 5 Ottobre, 00:00
Cosa potrà mai arrestare la marea montante del populismo che minaccia la salute già precaria del Vecchio Continente? Sembra questa la domanda che - come un fantasma - agita i sonni della classe dirigente di buona parte dei Paesi europei. Classi dirigenti che stentano a trovare risposte esaustive; così come a proporre soluzioni convincenti a una qualsiasi delle crisi che stanno divorando tutte le nostre sicurezze, che peraltro ci fanno usare strumenti vecchi per problemi nuovi e affogare ancora di più nell’impotenza.



La crisi dell’euro dalla quale non siamo ancora usciti; riforme che non sono mai sufficienti; la sensazione di dipendere quasi esclusivamente dalle terapie intensive dei banchieri centrali; tecnologie che promettono miracoli ma che, al momento, trasformano buona parte della crescita economica in incrementi di produttività e rischiano di cancellare milioni di posti di lavoro nei servizi; migrazioni che mettono a nudo quanto l’Europa manchi di leadership anche solo nella gestione del nostro vicinato, e quanto siamo psicologicamente vulnerabili. E ancora: diseguaglianze crescenti e, cosa più rilevante, una classe media che sta - dalla Grecia agli Usa, dalla Spagna al Regno Unito - semplicemente scomparendo, anche dove la crescita appare consolidata; un’informazione che è esplosa diffondendosi ovunque e ponendo alla democrazia rappresentativa e ai media (che ne sono una componente fondamentale) una sfida che potrebbe essere mortale.


Infine, una disoccupazione che si è concentrata quasi esclusivamente sui giovani, generando una distruzione di capitale umano che peserà per decenni e, come risultato finale, un “centro” della politica - quello dove si vincevano una volta le elezioni - che appare sempre più piccolo, mentre quella che era la minoranza fisiologica degli esclusi è ormai diventata - tra astensioni e populismi - maggioranza. Rumorosa, peraltro. Lo «Shock del nuovo»: era questo il titolo della conferenza annuale organizzata da British Council e Ambasciata britannica alla certosa di Pontignano vicino Siena, e che quest’anno era dedicata proprio al rapporto conflittuale tra establishment e chi fa promesse (spesso non mantenute) di sovvertire il sistema. Il tutto osservato dal punto di vista - diverso, ma non troppo - di chi prova a leggere e governare mutazioni in Italia e nel Regno Unito.



E, dunque, attraverso il confronto tra esperienze diverse - quella di Jeremy Corbyn appena diventato leader del partito laburista e quella del movimento Cinque stelle - ma anche di fenomeni simili che, quasi dovunque, stanno ponendo problemi nuovi per i quali sembrano essere disponibili solo risposte vecchie. Gli Stati Uniti e il Regno Unito sono, di nuovo, tra le economie più forti del mondo. Hanno recuperato già da qualche tempo, a differenza dei Paesi dell’area euro, i livelli di Pil che facevano registrare prima della crisi del 2007 e, viste le incertezze della Cina, del Brasile e della Russia, stanno facendo da locomotiva per gli altri. E tuttavia in entrambi i Paesi gli istituti nazionali di statistica dicono che il reddito di una famiglia media è ancora inferiore a quello di dieci anni fa.



La crescita sta arricchendo chi era già ricco e creando lavori precari per chi era al margine: è la classe media, l’architrave su cui poggia un qualsiasi sistema politico stabile, che sta soffrendo, e la conseguenza è che se anche fosse vero che Corbyn o Sanders non sono eleggibili dal centro, ciò potrebbe essere irrilevante visto che il centro si sta spostando verso gli estremi. Ma sarebbe stupido - ha ricordato qualcuno dei delegati alla conferenza di Siena capovolgendo ciò che diceva Clinton - immaginare che sia fatto di sola economia, il problema del distacco tra classe dirigenti e popolo, e più in generale di frammentazione della società in tante enclavi. Il problema è - direbbe uno studioso della conoscenza - soprattutto cognitivo.



Ci è sfuggito di mano il mondo e manca qualcuno che proponga una teoria di dove stiamo andando. I partiti politici non sono più in grado di esprimere una visione perché non “studiano” più e non parlano con le persone. Corbyn vince in un Paese ultra avanzato come il Regno Unito e Varoufakis affascina, perché entrambi riempiono il vuoto proponendo una teoria che ha il difetto di essere stata concepita per un mondo che è scomparso duecento anni fa e di essere fallita, ma il pregio di esprimere un’ambizione che un governo delle cose assolutamente incrementale e per aggiustamenti non riesce più a garantire. Certo, a salvarci non saranno né i sindacati, che a Londra hanno eletto il nuovo leader di uno stremato Labour Party, perché anche essi sono diventati centri di potere preoccupati esclusivamente della propria sopravvivenza, né le nazionalizzazioni di imprese e banche che rischiano di sostituire solo alla corruzione delle imprese quella ben più perniciosa dello Stato. E neppure tassare di più chi rischia, come vorrebbe Bernie Sanders che sta contendendo a Hillary Clinton la possibilità di sfidare i Repubblicani - anch’essi in rotta verso l’estremismo, per non uccidere la voglia d’impresa che anche il Papa indica come via più sostenibile all'inclusione.



Dalla crisi che è crisi di democrazia nasce, in effetti, un’opportunità.
L’opportunità - nel Regno Unito così come in Italia e in Europa - per un radicalismo progressista che, dopo i tentativi della stagione di Obama e di Blair, non trova ancora scuole, luoghi e leader sufficientemente forti ed innovativi. Se riusciremo a includere - concetto economico, ma non solo - a mobilitare in un progetto di cambiamento, allora avremo trovato la formula che può davvero aprire un ciclo politico capace di durare per i prossimi vent’anni.