Quei casi aperti sul territorio: ecco tutte le spine dei democrat

Quei casi aperti sul territorio: ecco tutte le spine dei democrat
di Mario Ajello
5 Minuti di Lettura
Lunedì 30 Marzo 2015, 05:50 - Ultimo aggiornamento: 08:04
ROMA - Sul piano nazionale, Matteo Renzi è assai soddisfatto di sé: «Facciamo molte più cose di quelle che riusciamo a comunicare». Sul piano internazionale, dice di essere abbastanza contento dell'operato del suo governo e crede di aver vinto la battaglia della «flessibilità». E sul piano territoriale, su quello dell'organizzazione del suo partito nelle città e nelle regioni italiane e su quello del rapporto fisico e politico dei democrat con le varie realtà del Paese, in alcune delle quali tra l'altro si svolgeranno le elezioni amministrative a fine maggio? Questo è un tema su cui il segretario tende non solo a non vantarsi ma nemmeno ama parlarne granchè. E' un suo punto dolente o comunque un nodo irrisolto.



MICRO-BOTTEGHE

Il Pd al tempo di Renzi sembra somigliare infatti a un partito pesante - ma nel senso della pesantezza delle lotte di potere e il caso Roma è uno specchio pauroso - e insieme a un comitato elettorale al servizio del leader e che si mobilita per il leader e per le grandi battaglie nazionali del leader ma inesistente o rissoso nelle situazioni locali. Dove non dominano neppure più quelli che un tempo erano «i cacicchi» (copyright Massimo D'Alema), dove sono politicamente venuti meno i personaggi egemoni o feudali alla Antonio Bassolino e il loro posto è stato preso da un pulviscolo di gruppi e di gruppetti, di famiglie e di clan in guerra continua tra di loro all'insegna dell'individualismo e degli interessi particolaristici da micro-bottega.



LE REGIONI

Ciò vale al Sud ma anche al Nord. La vicenda della Liguria è emblematica. Lì c'è un Pd che appoggia alle Regionali la vincitrice delle primarie (Raffaella Paita), un altro Pd che è uscito dal Pd (in pista c'è il civatiano auto-espulso Luca Pastorino) e la osteggia con virulenza accusando di berlusconismo o anche peggio la candidata renziana sponsorizzata dal governatore uscente che appartiene alla ex Ditta di derivazione Pci (Claudio Burlando) e in mezzo e ai lati di questo scontro vige la balcanizzazione generale a sinistra e la disaffezione elettorale temuta che potrebbe portare a un bis di quanto accadde in Emilia Romagna alle ultime regionali di poche mesi fa. Dove si verificò un astensionismo record, proprio da parte dell'elettorato che votava Pd. E le 500 tessere di dem siciliani stracciate in polemica contro la gestione del partito in Sicilia, tra accuse a Renzi di disinteressarsi del partito e accuse ai renziani di imbarcare cuffariani e lombardiani e berlusconiani fungendo da lavatrice del vecchio e non da macchina rottamatrice?



SIMILITUDINI

«Bisogna mettere mano al partito sul territorio», dice sempre più spesso, Renzi. Il quale è il primo a riconoscere che il vento nuovo stenta a soffiare sulle province dell'impero dem, e che il lavoro per un partito nuovo è ancora tutto da fare. Quello che c'è, a livello centrale, somiglia a Forza Italia dei bei tempi, nel senso che funge da comitato elettorale del leader ed è dotato di organi che rispondono direttamente al leader e che il leader muove a proprio piacimento. La direzione del Pd, insomma, non è molto diversa dall'ufficio di presidenza di Forza Italia. E i territori? In mano a se stessi. Chiusi nelle proprie logiche, impermeabili a qualsiasi linea generale, dove molti si dicono renziani pur non essendolo ma l'etichetta tarocca conta per proseguire nel solito tran tran.



LE TENSIONI

Il rapporto tra Vincenzo De Luca (renziano) e il suo partito a livello nazionale è emblematico. De Luca vince le primarie che il Nazareno non voleva, diventa il candidato presidente in Campania ma è pure condannato per abuso di ufficio. «Ritirati», è l'invito che gli arriva da Roma. «Non ci penso proprio!», è la risposta. E la resa dell'altro giorno da parte di Luca Lotti, a cui Renzi ha affidato la pratica del passo indietro di De Luca, è plateale: «Non ho chiesto nessun passo indietro a De Luca. Lui è il nostro candidato», ha dichiarato il braccio destro e sinistro di Matteo. Renzi lo andrà a sostenere in campagna elettorale? Per ora il Pd sta cercando di capire se altri candidati possono competere con il governatore uscente Caldoro, sono in corso sondaggi per trovare l'uomo giusto e Renzi vorrebbe in corsa il suo ministro Andrea Orlando. Più chiaro il caso di Agrigento. Il vincitore delle primarie per candidato sindaco, Silvio Alessi, è stato scaricato in quanto «non rappresenta la nostra gente». Ovvero: è di centrodestra e ha un passato di sostenitore di Forza Italia pur avendo vinto le primarie del centrosinistra. Il possibile sostituto è Angelo Capodicasa, comunista storico ed ex presidente della Regione (fisicamente è il sosia di Saddam Hussein): non certo un tipo stile Leopolda. Non lo è neanche Mirello Crisafulli, il super-cacicco di Enna, comunista da sempre e stracarico di voti ma considerato «impresentabile». Il Pd non lo vuole candidare («Fai il bravo, eh!», gli ha detto l'altro giorno il vice-segretario nazionale Guerini incontrandolo a Montecitorio) ma lui se ne infischia: «O mi fanno sottosegretario o ministro oppure io mi presento come sindaco. Anche da solo». Così sarà. Ed è fin troppo tenero l'ex ministro Fabrizio Barca, che sta monitorando da tempo e dal di dentro il Pd sui territori, quando lo descrive così: «Questo partito è in preda a un correntismo senza contenuti». Ma anche a scontri burocratico-clientelari come sono quelli che stanno facendo naufragare sul nascere la giunta regionale della Calabria, dove si è votato il 23 novembre scorso, ha vinto il bersaniano Mario Oliverio.



TOTEM

E il caso Marche dove il Pd deve affrontare la candidatura dell'uscente Spacca contro il proprio partito di appartenenza che è appunto il Pd? E in Puglia dove corre Michele Emiliano, che i renziani considerano «un cavallo pazzo» non obbediente a Matteo e si aggiungerebbe, a modo suo, a personaggi come il governatore siciliano Crocetta irriducibili a una coerente linea di partito? Situazione ancora più critica a Venezia. Dove l'anti-renziano Felice Casson ha sbaragliato tutti alle primarie per sindaco, a riprova che i renziani le primarie molto spesso non le vincono. E guarda caso, a Milano, dove la rinuncia di Giuliano Pisapia al secondo mandato come sindaco sta provocando il caos, il segretario regionale Alessandro Alfieri (renziano) si è precipitato ad avvertire: «Le primarie non sono un totem». Se Renzi riuscirà a convincere il manager Andrea Guerra (suo massimo consulente per le politiche industriali) a candidarsi per Palazzo Marino, avrà messo a segno un grande colpo. Ma il problema generale resta. Ed è quello di un Partito della Nazione che potrebbe nascere ma ancora non ha preso con attenzione tutte le misure del vestito che vuole confezionare.