Delega fiscale, intervista a Delrio: «Il decreto è giusto e lo confermiamo»

Delega fiscale, intervista a Delrio: «Il decreto è giusto e lo confermiamo»
di Andrea Bassi
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Martedì 6 Gennaio 2015, 09:07 - Ultimo aggiornamento: 20:36

Sottosegretario Graziano Delrio, ottocento vigili a Roma e duecento netturbini a Napoli hanno marcato visita la notte di Capodanno. C’è chi accusa il governo di non aver voluto prendere il toro per le corna, includendo anche i lavoratori statali nelle norme sui licenziamenti introdotte con il Jobs act alla vigilia di Natale?

«Non è così.

Non si disciplinano questi argomenti in maniera improvvisata. La delega sul lavoro aveva una sua logica che era di applicazione al lavoro privato. Dovevamo concentrarci per scrivere bene i due decreti legislativi sulla facilitazione del contratto a tempo indeterminato e sul nuovo sistema di protezione sociale. Un sistema questo, che porrà l’Italia in una posizione di assoluta avanguardia rispetto agli altri Paesi. Per la prima volta ci sarà la possibilità di un sistema di protezione vero e serio».

Sul tema del licenziamento degli statali, tuttavia, il premier Renzi ha detto che verrà affrontato nella delega sulla Pubblica amministrazione, che riprenderà il suo iter al Senato dopodomani. In che termini?

«Intanto noi abbiamo un tema molto specifico. Sia il mercato delle amministrazioni pubbliche che quello del lavoro privato deve essere orientato al risultato, all’efficacia del risultato. Questa equiparazione va innanzitutto fatta sulla capacità del lavoro pubblico di essere giudicato sui servizi che riesce ad erogare ai cittadini e il benessere che riesce a garantire alla comunità. Attenzione però, perché c’è un problema».

Quale?

«Il lavoro pubblico deve diventare più simile al privato sui meccanismi di selezione in ingresso, poco focalizzati ad attrarre persone di qualità. E deve avere una mobilità maggiore, tutte cose che abbiamo già introdotto con il decreto Madia. Poi c’è il tema delle uscite».

Il licenziamento degli statali...

«Vede, licenziare gli statali è già possibile. In alcuni casi è stato fatto. Io quando ero sindaco ho licenziato dirigenti inadempienti. Anche nel lavoro pubblico c’è questa possibilità. Per il licenziamento economico esiste la possibilità di esuberi. Se dovessimo discutere di cosa ha bisogno oggi il lavoro pubblico, il tema della flessibilità in uscita non è prioritario. Il lavoro pubblico ha più bisogno di riorientarsi nella produzione dei servizi».

Il fatto che i licenziamenti siano possibili lo ha ricordato anche l’ex ministro della funzione pubblica Renato Brunetta. Ci sono però due questioni. La prima è l’attuazione delle regole, spesso rimaste sulla carta, la seconda è che un dipendente privato licenziato illegittimamente ha diritto ad un indennizzo, un lavoratore pubblico al reintegro nel posto...

«La questione è delicata per vari motivi. Nel lavoro pubblico vi è la necessità di proteggere chi lavora da atteggiamenti discriminatori dovuti all’orientamento politico. Se quando cambia amministrazione c’è disponibilità di licenziare discriminatoriamente, rischiamo di distruggere la nostra burocrazia. Dal punto di vista generale, pur mantenendo queste attenzioni, è chiaro che è un ragionamento che va fatto. Il lavoro pubblico ha peculiarità sue proprie per la tutela del bene pubblico e degli interessi generali, ma credo che sia assolutamente legittimo e serio pensare ad un’evoluzione in questa direzione. Serve un ragionamento a 360 gradi senza particolari paure».

Lei era presente al consiglio dei ministri del ministri del 24 dicembre?

«Si, c’ero».

Ci può dire come è andata la discussione sulla riforma fiscale nella quale è spuntata la cosiddetta norma Salva-Berlusconi?

«Quel consiglio ha discusso della delega fiscale, che è un enorme passo in avanti per questo Paese, perché come aveva detto la dottoressa Orlandi proprio al suo giornale, abbiamo un sistema che si concentra sui piccoli evasori lasciando immuni i grandi. Il punto è che se tutto è penale poi si finisce che nulla è penale. Su questo si intendeva e si intende intervenire. Sul fatto se si dovesse includere o meno soglie percentuali o assolute, c’è stata una discussione che ha prodotto il testo poi pubblicato. Mi stupisco di chi si stupisce che il testo uscito dal consiglio sia diverso da quello entrato».

Questo è chiaro, ma qualcuno in consiglio ha sollevato il dubbio che la norma potesse favorire Berlusconi ?

«Nessuno ha mai pensato, è nemmeno è stato mai stato detto, di produrre un testo a favore di qualcuno o contro qualcun altro. I testi legislativi si fanno per rendere questo Paese più civile. Se poi ci sono dei dubbi, il testo può essere riesaminato come ha detto il presidente del Consiglio, in modo da fugare qualsiasi sospetto di favoritismi. Però francamente la discussione in consiglio dei ministri è stata molto serena».

Ma la norma l’ha proposta il Tesoro o Palazzo Chigi?

«Quando esce un testo la responsabilità è sempre della collegialità del consiglio dei ministri. Nel consiglio il tema è stato dibattuto ampiamente. C’è chi parlava del 3 per cento, chi di una soglia economica di 150 mila euro, su questo ogni tecnico ha la sua teoria. E comunque, pur non essendo un giurista, sono abbastanza certo che la norma non si applica al caso del dottor Berlusconi. Comunque il tema fondamentale di cui abbiamo dibattuto era un altro».

Vale a dire?

«Il fatto che in questo Paese ci sono meno di cento persone in galera per evasione fiscale. Detto ciò, quello uscito è il testo discusso e approvato. Non c’è nessuna manina che finito il consiglio abbia inserito o tentato di inserire alcunché, ma siamo pronti a cambiarlo».

Che farete, cancellerete la norma con la franchigia sull’evasione?

«Lo spirito del provvedimento non deve cambiare. Dobbiamo aumentare le pene sui casi più gravi, ma vanno depenalizzati gli errori fiscali che non costituiscono frode e che introducono un blocco nel rapporto tra fisco e cittadini. Non credo che ci sia nessun problema a tenere aperto il provvedimento fino a quando non si trova un equilibrio che possa evitare qualsiasi cattiva interpretazione».

Il governo porterà dunque avanti il decreto?

«Certo, questo Paese ha bisogno di attuare la delega fiscale. Tornare nell’immobilismo democratico, per cui se ci sono diversi pareri non si decide nulla, non è più possibile».

Senta, una delle riforme che porta il suo nome è quella sulla cancellazione delle Province. La legge di Stabilità ha accelerato il processo tagliando un miliardo di fondi. Ora ci sono circa 20 mila lavoratori che dovranno essere trasferiti alle Regioni, la più grande operazione di mobilità della storia della Repubblica. Su questo si sta consumando uno scontro con i governatori, che lamentano risorse scarse...

«Sono abituato a rispettare il lavoro degli altri ma a dire chiaramente quando qualcuno non lo sta facendo. I governatori hanno un problema ad oggi».

Quale?

«Entro il 31 dicembre dovevano dire quali funzioni trasferivano alle Province. Questo lavoro non è stato eseguito. Mentre lo Stato ha immediatamente detto quali sono le funzioni delle Province, e quelle e non altre si impegna a finanziare, le Regioni dovevano fare altrettanto. Non l’hanno fatto. C’è un ritardo che va colmato immediatamente, perché la riforma è complessa e profonda, bisogna che ognuno faccia bene il suo mestiere. Le Regioni devono dire anche come intendono finanziare queste funzioni e di quanto personale hanno bisogno».

Se non lo fanno?

«Il governo non intende lasciare nell’incertezza migliaia di dipendenti. La legge prevede poteri sostitutivi dello Stato in caso di inottemperanza».

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