Il caso De Luca/ La violenza spacciata per libertà di pensiero

di Alessandro Campi
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Martedì 20 Ottobre 2015, 00:09 - Ultimo aggiornamento: 00:10
Una volta acclarato che le sentenze si rispettano, ci sarà concesso di commentare e criticare quella che ieri ha mandato assolto lo scrittore Erri De Luca perché, secondo la formula di rito, “il fatto non sussiste”. Avendo rubricato il suo invito a boicottare la Tav ad una forma di libera espressione del pensiero, tutelata dalla Carta repubblicana all’articolo 21, si spera che verrà considerata libera espressione del pensiero anche l’affermazione secondo la quale fare l’apologia del boicottaggio, ovvero ritenere lecito e giusto il vandalismo, non configura una generica forma di dissenso politico, ma un reato - quello appunto d’istigazione a delinquere - che sarebbe stato bene sanzionare secondo quanto espressamente previsto dal nostro codice penale.



Chissà da dove nasce quella dottrina, molto radicata in Italia, secondo la quale lo Stato di diritto, per essere considerato tale, non dovrebbe disporre di alcun argine giuridico-legale nei confronti di coloro che ne mettono in discussione il buon funzionamento e le regole basilari o che ne minano sistematicamente la legittimità e le scelte. Coi fatti, ma anche con le parole, che dei primi, come la storia insegna, sono spesso l’antecedente logico e la necessaria premessa. Non c’è infatti violenza o barbarie, piccola o grande, che non sia stata prima teorizzata o preceduta da una giustificazione verbale.



Essendo uno scrittore, dunque avvezzo a utilizzare le parole, De Luca ha sempre sostenuto, ad esempio nel pamphlet “La parola contraria” scritto per raccontare le sue peripezie giudiziarie, che il termine sabotare è stato da lui utilizzato - nell’intervista del settembre 2013 che gli è costata la denuncia e il processo - in un significato che era immateriale e simbolico, estensivo e metaforico, per spingere non al danneggiamento materiale (diversamente avrebbe agito lui stesso in prima persona), ma genericamente alla protesta contro un’opera giudicata da lui e da una minoranza “nociva” e “inutile” ma dallo Stato italiano e dalla maggioranza delle forze politiche (dalla destra alla sinistra) - guarda un po’ - “utile” e “necessaria”.





Avendo fatto le sue affermazioni (alla lettera: “La Tav va sabotata… il sabotaggio è l’unica alternativa”) con riferimento all’arresto di due militanti “no Tav” che nella loro macchina trasportavano molotov, maschere antigas, fionde, chiodi e cesoie (materiali destinati, secondo gli inquirenti, ad azioni di danneggiamento contro i cantieri) e in replica alle parole dell’allora procuratore capo di Torino Gian Carlo Caselli sugli intellettuali che “sottovalutano pericolosamente l’allarme terrorismo” in Valsusa, ci vuole davvero una bella fantasia per considerare le sue parole meramente astratte e simboliche e non una forma di fiancheggiamento intellettuale, se si vuole di simpatia ideologica, verso atti concretamente violenti e contro legge come quelli che da anni vengono organizzati con logica quasi militare contro i cantieri della Tav.

Si può anche convenire che tagliare le reti con le cesoie, secondo il suo esempio di un boicottaggio ancora accettabile, sia stare ancora al di qua del terrorismo formalmente inteso: non implica né sparare né uccidere. Ma può esserne l’antipasto e rappresenta pur sempre una forma di odioso danno inferto ad una pubblica proprietà (non è già questo un reato?).



Quanto al rischio di una escalation dal vandalismo al terrorismo vero e proprio, segnalato da Caselli, e alla possibilità di passare come il potenziale istigatore intellettuale di un simile salto di qualità, De Luca se l’è cavata scrivendo che “se dalla parola pubblica di uno scrittore seguono azioni, questo è un risultato ingovernabile e fuori dal suo controllo”. Ma questa - l’impossibilità cioè di calcolare gli effetti delle proprie parole - è esattamente la linea che hanno sempre assunto, per difendersi ex post e sfuggire le proprie responsabilità, i fiancheggiatori intellettuali dei movimenti politici estremisti del Novecento. Da Heidegger a De Luca, si potrebbe dire ironizzando, la scusante addotta è sempre la medesima: flebile e puerile per chi davvero creda nella forza delle idee.



Ma ci sono altri aspetti di questa vicenda, sentenza a parte, che infastidiscono. Ad esempio la pretesa deluchiana di atteggiarsi a martire del pensiero e a vittima di uno Stato che - va da sé - è sempre cattivo ed oppressore. Ma si è visto ieri quanto questo Stato sia al dunque (secondo i punti di vista) magnanimo o debole con chi lo contesta e sfida. Resta dunque da capire, esclusa un’inesistente vocazione al sacrificio di sé, cosa ci sia dietro la pervicacia con cui De Luca anche ieri, appena assolto, ha reiterato il suo inno al boicottaggio.



Un po’ dipende dal fatto che in Italia certe correnti politico-intellettuali - l’estetismo letterario di scuola dannunziana, il movimentismo sindacalista, il massimalismo parolaio e pseudorivoluzionario, l’antistatalismo sovversivo e anarchicheggiante, il radicalismo barricadiero - sono ampiamente sopravvissute alla loro sconfitta storica ed hanno dunque, ancora oggi, seguaci ed epigoni anche laddove meno te l’aspetteresti. De Luca, come del resto Grillo, vengono “a loro insaputa” da questo magma primo-novecentesco.



Ma ci sono poi da considerare, nel caso del Nostro, altri fattori. Il narcisismo tipico dello scrittore di successo, convinto di poter orientare la storia con una frase ben azzeccata. L’ostinazione patetica, rispetto ai propri ideali della gioventù, che spesso dimostrano i rivoluzionari quando invecchiano (sempre che nel frattempo non siano passati nel campo della reazione). La confusione che gli intellettuali talvolta fanno tra la storia che vivono e quella che immaginano di stare vivendo (lo stesso De Luca ha detto di sentirsi, in questa sua battaglia con la No Tav, come George Orwell ai tempi della guerra civile spagnola). Infine il convincimento che avendo fallito all’epoca della propria militanza nei ranghi dell’estrema sinistra, ci sia oggi fortunatamente una nuova leva rivoluzionaria alla quale cedere il testimone e nella quale confidare.



L’unica nota positiva di questa vicenda è che stavolta ci siamo risparmiati appelli pubblici e mobilitazioni di massa. A parte la rete di solidarietà dei reduci di Lotta continua, ancora ben incistati nei giornali e nell’accademia, i soliti francesi senza vergogna che tifano sempre per gli estremisti di sinistra contro lo Stato italiano e quei lettori per i quali De Luca è un grande scrittore intimista e un cantore raffinato dei sentimenti umani (“I baci non sono anticipo d’altre tenerezze, sono il punto più alto” è in effetti una frase che non sfigurerebbe sui cartigli dei Baci Perugina), non c’è stata alcuna difesa d’ufficio ad opera dei sui pari: gli intellettuali italiani - si spera memori delle scempiaggini sostenute negli “anni di piombo” - non sono andati oltre una generica e distratta solidarietà.

Per chiudere, polemicamente come abbiamo iniziato.



Ieri, nel giorno dell’assoluzione dello scrittore napoletano, in un bagno dell’aeroporto di Istanbul è stato trovato il corpo senza vita della giornalista inglese Jacky Sutton: inviata di guerra in Afghanistan e Iraq, aveva indagato sulle donne dell’Is e dirigeva in Iraq l’Institute for war and peace reporting. Il suo predecessore in quest’ultimo incarico è stato ucciso lo scorso maggio in un attentato. Ecco, dovendo pensare agli odierni paladini della libertà di pensiero e agli intellettuali che, a costo del sacrificio della vita, si battono contro l’autoritarismo, la repressione e l’oscurantismo politico, dunque per una buona causa, il nome di Erri De Luca e di quelli come lui è davvero l’ultimo che viene alla mente. E i “Je suis Errì” sbandierati nell’aula di giustizia dai suoi sostenitori, più che come uno slogan utilizzato a sproposito, davvero suonavano come un insulto.