Cristiani e Islam, la difesa della fede come atto politico

di Franco Cardini
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Lunedì 13 Aprile 2015, 23:49 - Ultimo aggiornamento: 23:58
In apparenza, quella frase dell’Angelus era ovvia, quasi banale. Una frase detta in sordina: quello armeno «primo genocidio del XX secolo». Qualche mese fa il presidente Erdogan si era lasciato sfuggire una mezza ammissione, una quasi richiesta di scuse; gli armeni, Charles Aznavour in testa, avevano protestato che non bastava: ma poteva sembrare un inizio. D’altro canto, il presidente ha prestato una prestigiosa chiesa bizantina nel recinto del Topkapi al sinodo delle Chiese orientali. Insomma, lo scontro diplomatico sulle parole di Papa Francesco è sembrato a molti un fulmine a ciel quasi sereno.

Qualcuno si è stupito della sua ferma, diciamo pure dura replica a Erdogan: il dovere del cristiano è dire «sì-sì, no-no», sempre e comunque la verità; e i compiti del vescovo di Roma è sia difendere i cristiani, sia tutelare sempre e comunque i deboli. Che questi deboli siano i cristiani d’Asia e d’Africa massacrati o i migranti musulmani che annegano davanti a Lampedusa, non è importante: il punto è che Francesco ha lacerato il velo che copriva gli occhi di molti e ha mostrato che il dramma più orribile di questi nostri tempi difficili consiste nelle guerra tra i poveri: e nel fatto che sono dei ricchi a fomentarla.



Qualcuno ha proposto un paragone tra la perfino eccessiva timidezza dimostrata ai tempi dell’incidente della “lezione di Regensburg” di Benedetto XVI, già all’epoca ormai stanco di quella stanchezza che ha portato al “gran rifiuto” del 2013, che all’indomani delle sue dichiarazioni giudicate – a torto o a ragione (secondo me a torto) – “antislamiche” sembrò far precipitosa macchina indietro, e il coraggio e la fermezza di Francesco che non teme di ribadire le responsabilità turche nei tragici eventi che accompagnarono la strage degli armeni tra 1915 e 1917 (e che in realtà era cominciata negli anni Ottanta dell’Ottocento e continuò fino al 1923). Perché non va dimenticato che il genocidio degli armeni da parte dei turchi, cui collaboravano con barbaro entusiasmo alcuni gruppi di guerriglieri curdi (a loro volta poi vittime della pace di Versailles che negò loro una patria e uno stato autonomo, e dei turchi che ne hanno negato la stessa identità), fu anche uno sterminio di cristiani da parte di musulmani.



E ancora oggi ci sono dei musulmani che massacrano dei cristiani, sia pure in un contesto e secondo modalità differenti. Ma se le cose stanno così, dietro il “duello” tra Bergoglio ed Erdogan c’è molto di più che non un incidente diplomatico: c’è una contesa per un’egemonia politica e anche morale, c’è una gara di emulazione tra due uomini forti uno dei quali si presenta come il tutore dei cristiani e di tutti gli oppressi (e dei cristiani orientali in quanto oppressi), mentre il secondo rappresenta il governo del Paese che insieme con l’Iran è quello più occidentalizzato del mondo musulmano ma che sta portando avanti una politica che intende conservare il rigore nazionalistico kemalista e al tempo stesso rimettere in gioco il ruolo attivo della fede islamica, ben conscio che in questo momento ciò implica un atteggiamento sostanzialmente non ostile nei confronti dei jihadisti.



Non è ormai certo più un mistero che il presidente turco non ha nessuna voglia di combattere frontalmente lo “Stato islamico” del califfo al-Baghdadi: né si vede come diversamente le cose dovrebbero andare, dal momenti che la Turchia dell’Akp e il califfo hanno esattamente gli stessi nemici: il siriano Assad, i curdi e l’Iran. Che del resto il califfo sia considerato da troppi un “falso nemico” è cosa evidente: non sarà certo sfuggito a nessuno, auguriamoci, che in questi giorni una lega di Stati arabi sunniti, tutti a parole nemici dello “Stato Islamico”, stanno in realtà combattendo contro gli sciiti dello Yemen. La fitna, la guerra civile tra sunniti e sciiti, prosegue. A combattere il califfo, nella realtà delle cose, sono soltanto alcuni reparti dell’esercito irakeno in gran parte sciiti, i curdi che sono sì sunniti ma etnicamente iranici e religiosamente quel che noi definiremmo “laici”, e alcuni reparti iraniani.

In questo contesto lo scontro diplomatico frontale acquista il suo autentico valore politico. Quando un capo di Stato (e anche il Papa lo è) scatena una crisi diplomatica, in genere il suo effettivo intento è anzitutto interno: questo caso non fa eccezione. Papa Francesco non vuol certo inimicarsi i turchi: vuole soltanto sottolineare il suo ruolo di obiettivo tutore dei cristiani oppressi nel mondo, e ciò nella duplice direzione di sostenitore dell’unità di tutti i fedeli nel Cristo e di promotore della lotta in favore degli Ultimi della Terra.



Erdogan si guarda bene dal volersi inimicare il Papa: ma vuole persuadere i turchi, kemalisti e non, che la difesa della dignità del suo popolo e della sua storia passa anche attraverso la rivendicazione del ruolo civile dell’Islam, quindi attraverso la sua politica e la sua ladership. Chi ha giudicato eccessive le posizioni dell’uno o dell’altro, rimproverando la troppo rigorosa fermezza del Pontefice o la troppo dura replica del presidente, ha dimenticato che ciascuno di loro stava parlando non all’altro, non al mondo intero, ma principalmente a quanti in ciascuno di loro rispettivamente si riconoscono.



E lo scopo di entrambi? Quando si fa una guerra, si combatte per arrivare a una pace. Quando si avvia una lite diplomatica, si agisce per cercare un punto di accordo a un livello superiore. Nel mondo politico attuale, il vescovo di Roma e il leader “filojihadista” del Paese musulmano più “laico” della terra aspirano a egemonizzare un dialogo nel quale la fede sia protagonista. Dopo decenni di secolarizzazione giudicata fatale e irreversibile, si direbbe che questo sia uno dei segni che indicano come la Modernità sia arrivata al capolinea. Che ogni settimana l’Angelus in piazza San Pietro sia atteso come un evento e un messaggio politico d’indiscussa autorevolezza è cosa che fa sul serio riflettere.