Il premier nel fortino e il nuovo ruolo del Presidente

di Alessandro Campi
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Giovedì 29 Gennaio 2015, 21:56 - Ultimo aggiornamento: 31 Gennaio, 16:22
Esiste un nesso tra la decisione, presa da Matteo Renzi, di avanzare come candidatura unica e unilaterale quella di Sergio Mattarella, a costo di incrinare il suo asse con Silvio Berlusconi, e i cambiamenti che si annunciano nel funzionamento del nostro sistema politico-istituzionale, inevitabilmente destinati a incidere anche sulle funzioni e le competenze del Colle?



Al momento non si può dire, con certezza matematica, se Mattarella sarà il prossimo Presidente della Repubblica. La politica italiana ha sempre avuto un che di indecifrabile e di imprevedibile. Ma in attesa di vedere come e quando si chiuderà la partita, e quali eventuali sorprese ci riserveranno i giocatori, conviene interrogarsi sulle ragioni di una simile scelta, che ha platealmente contraddetto chi immaginava che la designazione (condivisa) del candidato al Colle fosse parte integrante del cosiddetto Patto del Nazareno.



Si dice che Renzi abbia voluto privilegiare, in questa fase delicata della sua esperienza al governo, l’unità del partito, messa a dura prova dall’iter parlamentare sulla legge elettorale. Ha così individuato una personalità sulla quale anche la minoranza interna, da mesi nervosa e pronta a dare battaglia contro ogni ipotesi di accordo con Berlusconi, non ha trovato nulla da dire. In questo modo, Renzi si è rimangiato gli impegni presi col Cavaliere.



Cavaliere che certo si starà chiedendo in queste ore se non abbia sbagliato a fidarsi troppo del suo giovane interlocutore per avergli concesso, senza alcuna contropartita politica, una legge elettorale che si sa già essere penalizzante per Forza Italia e per l’intero centrodestra. Inoltre il premier ha anche rinnegato il se stesso di qualche tempo fa.



Il Renzi trasversale e arrembante, che puntava a uscire dai confini storici della sinistra aprendo al mondo moderato e che non temeva di andare allo scontro con le componenti più ideologizzate del suo stesso partito, sembra aver virato improvvisamente a sinistra, privilegiando il senso di appartenenza al dialogo con l’avversario, la difesa della ditta al piglio dello stratega. Insomma Renzi non appare più l’interlocutore privilegiato dei moderati ma si rinchiude nel fortino Pd. Anzi nella maggioranza, versione Unione prodiana, senza nemmeno aver puntato su Prodi.



Ma forse la scelta di un politico con le caratteristiche di Mattarella - un uomo di grande riserbo e notoriamente poco incline ad apparire in pubblico, di indubbia competenza tecnico-costituzionale ma non particolarmente noto al grande pubblico, con una vasta esperienza alle spalle ma da tempo estraneo alla lotta politica, per cultura e formazione assai ligio al dettato costituzionale - si può spiegare anche con altre ragioni, meno contingenti. La principale delle quali ha probabilmente a che vedere con il disegno politico-istituzionale che Renzi sta perseguendo dacché è alla guida dell’esecutivo e che, se dovesse realizzarsi secondo i suoi intendimenti, è destinato ad aprire una pagina radicalmente nuova nella storia dell’Italia repubblicana.



Se andranno in porto la nuova legge elettorale e le altre riforme costituzionali attualmente in discussione alle Camere (a partire dall’abolizione del Senato elettivo) l’Italia si lascerà infatti alle spalle settanta anni di regime parlamentare per diventare un sistema politico nel quale il capo del governo - per come è stato congegnato l’Italicum - verrà eletto direttamente dai cittadini e disporrà, oltre che di una maggioranza parlamentare blindata grazie al premio di maggioranza, anche di poteri più estesi che nel passato. Con queste riforme, non avremo solo il passaggio da un ordinamento bicamerale ad uno monocamerale (il che dovrebbe semplificare il processo legislativo), avremo altresì un Parlamento controllato, grazie al meccanismo delle liste bloccate, dai leader di partito, composto da uomini di fiducia di quest’ultimo e dunque dotato di una scarsa autonomia decisionale.



In questo nuovo quadro istituzionale, - dominato da un premier legittimato dal voto popolare - il Capo dello Stato perderà ovviamente la possibilità di nominare il Presidente del Consiglio e vedrà ridursi alcuni dei suoi attuali poteri di veto e d’intervento. Ma perderà anche, se non formalmente di certo sul piano politico, una serie di importanti funzioni simboliche, ad esempio quella di rappresentare la nazione sulla scena internazionale. Da qui l’idea, che Renzi ha peraltro espresso pubblicamente in più occasioni, che il futuro Presidente della Repubblica italiana dovrà conformarsi sempre più al modello tedesco e caratterizzarsi alla stregua di un garante e di osservatore neutrale. Tutti in Italia conoscono la Cancelliera Merkel. Qualcuno ha mai sentito parlare di Joachim Gauck, presidente della Repubblica federale tedesca dal 2012?



Nel desiderio di una presidenza che non sia più “interventista” e costretta ad assumere nelle sue mani l’indirizzo politico del Paese, come diverse volte è accaduto in Italia negli ultimi vent’anni, c’è certo il desiderio di lasciarsi alle spalle una fase storica nel segno dell’emergenza e dell’eccezionalità. C’è dunque il desiderio di una politica normale, che affidi i propri equilibri alla dialettica tra le forze politiche, nel rispetto della volontà popolare. Ma nell’immaginare un Capo dello Stato che sia una figura soltanto notarile, nel momento in cui l’intero sistema politico va squilibrandosi a favore di un capo del governo designato dal voto popolare, c’è anche la sottovalutazione di una questione che nella vita di tutte le democrazie dovrebbe essere considerata vitale: quella dell’equilibrio tra i poteri, dei contrappesi istituzionali e dell’esistenza di un solido sistema di garanzie.



Un capo del governo “forte”, in un sistema caratterizzato peraltro da un Parlamento debole e da partiti debolissimi come è già oggi quello italiano, dovrebbe richiedere un Presidente della Repubblica altrettanto “forte”. Ma la capacità d’intervento di quest’ultimo, per essere chiari, non è la stessa cosa dell’autorevolezza morale: la prima è un attributo politico, la seconda un tratto della personalità.