La cattiva politica genera burocrazia

di Giovanni Sabbatucci
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Lunedì 13 Ottobre 2014, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 00:11
Nello Stato moderno, così come si è costituito in Europa negli ultimi tre secoli, la burocrazia è un po’ come il sistema nervoso nell’organismo umano.



Può essere più leggera, come nei Paesi anglosassoni, o più strutturata e penetrante, come nei paesi di tradizione centralistica, ad esempio Francia e Italia. Ma non esiste Stato moderno senza un apparato organizzato gerarchicamente, selezionato secondo regole certe, votato a tempo pieno all’applicazione delle norme secondo criteri tecnici uniformi e costanti, tenuto a produrre documentazione scritta delle sue decisioni.



Eppure, in quegli stessi Stati che su di essa si fondano, nulla è più impopolare della burocrazia. I politici, alle cui direttive l’Amministrazione pubblica dovrebbe dar corso, vedono in essa un impaccio alla loro libertà di azione e un ostacolo a processi decisionali che si vorrebbero pronti e spediti (in politica burocratizzazione è spesso sinonimo di degenerazione).



I comuni cittadini, e in particolare i ceti produttivi, sentono la burocrazia come una casta parassitaria, impenetrabile e ostile, impegnata a complicare la vita di tutti con l’imposizione di procedure inutili e macchinose.



In Italia il rapporto fra apparati burocratici e società civile è sempre stato problematico e tendenzialmente conflittuale. Così fu agli esordi dello Stato unitario, quando la “piemontesizzazione” negli uffici pubblici fu sentita, soprattutto nel Mezzogiorno, come una sorta di colonizzazione.



E così, all’inverso, nel corso del Novecento, quando l’amministrazione si “meridionalizzò” e fu usata come bacino di collocamento per una piccola borghesia affamata di impieghi pubblici. Oggi la burocrazia è più che mai al centro delle polemiche. Anzi è oggetto di attacchi continui e di vere e proprie invettive.



Lo è, in generale, in ragione della difficile situazione economica e dei filtri, a volte ragionevoli altre volte puramente vessatori, che essa impone all’erogazione di servizi e sussidi alle categorie più colpite dalla crisi: è di ieri la notizia del suicidio di un imprenditore di Pordenone, escluso da un appalto per una fotocopia dimenticata. Lo è in particolare, dopo il disastro di Genova, in quanto colpevole di quei ritardi - definiti appunto “burocratici” - che, in un contesto di risorse scarse, hanno impedito l’uso di quelle già disponibili per l’avvio delle opere necessarie a prevenire nuove catastrofi.



Critiche e proteste sono più che giustificate. Lo testimoniano i dati nudi e crudi sui fondi non utilizzati, sugli allarmi inascoltati, sui tempi biblici dei contenziosi amministrativi. E non è accettabile che un ricorso al Tar basti a bloccare per mesi o per anni un’opera riconosciuta come urgente. Ma l’invettiva generica serve a poco e rischia di colpire indiscriminatamente pubblici funzionari colpevoli solo di applicare norme e regolamenti di cui sono i politici a portare la responsabilità (anche se a scriverli materialmente sono altri burocrati).



Se le norme sono malfatte e le procedure macchinose, le une e le altre vanno cambiate e rese più snelle. E a cambiarle non può essere che il legislatore. Ignorarle o sospenderne l’applicazione in nome dell’emergenza, come avviene in un’economia di guerra, può essere necessario in casi specialissimi, ma è spesso fonte di abusi e di ruberie. Non dimentichiamoci degli scandali legati al dopo-terremoto dell’Aquila, peraltro ancora lontani da una conclusione giudiziaria: i tempi della magistratura ordinaria non sono certo più rapidi di quelli della burocrazia.



In entrambi i casi il problema non è meramente organizzativo, o legato agli automatismi delle carriere. È un problema culturale in senso lato: si tratta, e non è poco, di liberarsi dalle strettoie dell’autoreferenzialità e di tenere in maggior conto le esigenze dei cittadini. Prima fra tutte quella che vuole le cose non solo fatte, ma fatte in un tempo dato, compatibile con le urgenze che di volta in volta si presentano. Si tratti di grandi opere pubbliche o di piccoli appalti.



Ancora a proposito dell’imprenditore di Pordenone: non si può chiedere alle pubbliche amministrazioni di sorvolare su una documentazione incompleta (essendo il controllo formale consustanziale all’attività burocratica). Si può chiedere però di ridurre la montagna di carte, spesso inutili, richiesta per qualsiasi pratica, anche la più banale. E magari di aprire uno sportello che permetta di verificare a monte la congruità della documentazione presentata e di segnalare all’utente le eventuali lacune. Sarebbe anche questo un modo per avvicinare la burocrazia ai cittadini, per renderla più amichevole nei loro confronti o, se non altro, meno impopolare.