Camusso-Renzi, la sfida deve guardare ai contenuti

di Massimo Adinolfi
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Mercoledì 29 Ottobre 2014, 22:46 - Ultimo aggiornamento: 30 Ottobre, 00:10
Renzi al governo con i poteri forti, e la Camusso alla guida della Cgil grazie alle tessere false. Sotto, la firma autografa della stessa Camusso, e dell’eurodeputata Pina Picierno. Il vecchio e il nuovo, insomma: però in versione rozzamente caricaturale, non so se volutamente farsesca, di sicuro degna non di un vero dibattito politico, ma di un’opera da avanspettacolo. Il segretario generale della Cgil ha molti motivi per essere soddisfatta della manifestazione di sabato: la gente in piazza c’era, il segnale politico è arrivato.

Ma non ha alcun motivo per lanciarsi in un attacco così poco riguardoso nei confronti del governo e del presidente del Consiglio. In un attacco personale, portato con l’argomento più polveroso che a sinistra sia possibile reperire: l’ombra dei poteri forti che si allungano sulle istituzioni democratiche. Se una cosa è chiara, infatti, nella vicenda politica italiana di quest’ultimo anno, è che Renzi ha un consenso reale e di vasta portata nel Paese. Quel consenso si è manifestato in tutte le occasioni in cui ha potuto manifestarsi: nelle primarie e nelle successive elezioni europee, così come nei voti espressi in Parlamento e nel suo partito, il Pd. C’è da scommettere che, si andasse al voto domani, si manifesterebbe un’altra volta. Dunque la Camusso non ha alcun motivo per fare illazioni sulle ragioni per cui oggi Renzi siede a Palazzo Chigi. Se d’altra parte si volesse chiamare «manovra di Palazzo» il modo in cui Renzi è succeduto a Letta, si dovrebbe perlomeno riconoscere che la manovra è riuscita per un’unica e sola ragione: il consenso di cui sopra.



Parliamoci chiaro: Letta si è dimesso non perché Marchionne gli ha telefonato, pregandolo di accomodarsi alla porta, ma perché non godeva più dell’appoggio del suo partito. La Fiat non c’entra nulla, e nulla c’entrano i fantomatici poteri forti evocati dalla Camusso: che peraltro fa un inutile torto alla sua confederazione se si acconcia in questo modo a considerarla un potere debole. La Camusso, in realtà, non è un povero Don Chisciotte in lotta contro i mulini a vento; è il capo del sindacato italiano più grande, che ha deciso di mettere tutto il peso della propria organizzazione per frenare la riforma del lavoro voluta dal governo. Non è poco, e proprio perciò non è il caso di inventarsi polemiche speciose, ma di stare semmai al merito delle proposte di governo e di replicare su quelle. Ma ancor meno c’entrano le tessere false dei congressi della Cgil, o i pullman pagati per andare a piazza San Giovanni. Che un membro della segreteria nazionale del maggior partito italiano, che governa il Paese, non trovi di meglio, per respingere critiche e obiezioni, di muovere attacchi denigratori nei confronti dell’interlocutore fa veramente cadere le braccia. Se questa è la cultura politica che esprime il nuovo, che diventi subito vecchio pure questo. Pina Picierno poteva prendersela con le idee del sindacato, con il conservatorismo del sindacato, con il corporativismo del sindacato, con la perdita di rappresentanza del sindacato: con qualunque cosa fosse venuta fuori nel dibattito di queste settimane sul Jobs Act. Non poteva però e non doveva provare a delegittimare la figura stessa del segretario generale, né offendere le centinaia di migliaia di persone scese in piazza, secondo lei, solo perché retribuite. Tanto più che non sono affatto parole dal sen fuggite. Poi, certo, nel pomeriggio corre ai ripari, si scusa, chiarisce, precisa. Ma a parte le scuse, che sono sempre benvenute, cosa c’è da precisare? Qualunque cosa intendesse dire con quelle parole, non è possibile estrarre da esse altro che motivi di una polemica diretta contro la persona. A leggere insomma le une e le altre dichiarazioni, c’è da ritenere che sia la Camusso che la Picierno credono molto poco alle loro stesse ragioni, se provano a sostenerle con questi argomenti. E la colpa non può essere sempre dei giornali, del talk show, della politica spettacolo che richiede dichiarazioni ad effetto, della personalizzazione o di non so quale altro inarrestabile fenomeno. È colpa anche di chi se ne fa interprete, e del modo in cui lo fa. Perché un altro modo c’è, ci deve essere, e forse persino altri interpreti. O almeno lasciatecelo credere.