Usa, impunito il poliziotto killer: la rabbia dei neri brucia le città

di Paolo Graldi
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Martedì 25 Novembre 2014, 22:26 - Ultimo aggiornamento: 26 Novembre, 00:17
America in fiamme. Novanta città coinvolte. Pericolosi incendi sociali divampano da una costa all’altra degli States, la rivolta della comunità nera dilaga dopo il verdetto del Grand giurì di Ferguson, nello Stato del Missouri.

Il Grand giurì ha mandato assolto un poliziotto accusato di aver freddato ad agosto con dodici colpi di pistola un ragazzo di colore, diciottenne, disarmato, le braccia alzate in segno di resa. Guerriglia anti-razzista pesantissima in molte grandi città. La rivolta è esplosa dapprima a Ferguson, poi a St. Louis, Oakland, Seattle, Washington, Boston, Chicago, Philadelphia. Un po’ ovunque. Forte la preoccupazione. Ore ad alta tensione alla Casa Bianca. Lampi di violenza anche a New York , secchiate di vernice color sangue sul capo della polizia della Mela, chiusi i ponti di Manhattan e Brooklyn. Arresti a centinaia. Edifici dati alle fiamme e così auto e negozi presi d’assalto. Un rigurgito di violenza che s’abbatte come una valanga contro l’estrema durezza di certi comportamenti della polizia, accusata di mirare e sparare a vista, tanto più se nel mirino c’è un uomo di colore. L’elenco dei lutti, disseminati sul territorio, è ampio almeno quanto la rabbia della gente scesa per le strade. I nomi di quei morti riemergono nei cartelli che chiedono giustizia.



Ma è dai cortei che poi divampa la violenza e si perde ogni ragione. Scene già viste, dagli anni Cinquanta in poi, compresi quelli dell’arroganza sanguinaria del Ku Klux Klan negli Stati del Sud, e mai davvero pacificati. La questione razziale, negli Usa, si è riaperta ora in tutta la sua ampiezza, troppe tensioni covavano sotto la cenere di una convivenza conflittuale e tuttavia tenuta a bada a malapena. Una sentenza ha riaperto la ferita. La morte di Michael Brown, un ragazzone corpulento, un “gigante buono” per i genitori, ma dai modi da bullo spaccamontagne, invischiato nel furto di una scatola di sigari in un drugstore, ripreso dalle telecamere, inseguito dal poliziotto bianco Darren Wilson che lo ha freddato, tutto questo è il prologo del disastro in atto, riesploso nella notte alla notizia che la giuria (9 bianchi, 3 neri, 7 uomini, 5 donne) che il poliziotto non poteva essere processato per quella morte perché aveva agito nella legalità.



«Quel giovane era gigantesco, sembrava un diavolo, quando l’ho afferrato per un polso mi sono sentito un ragazzino di cinque anni che cerca di trattenere il terribile Hulk Hogan». Cosi si difende il poliziotto, la giuria gli ha creduto. Con quali voti al suo interno il pubblico ministero Robert McCulloch non ha detto, si è rifiutato di dire, limitandosi a precisare, polemicamente contro i media, che il compito dei giurati «è quello di separare i fatti dalla fiction». S’imbiancano a vista d’occhio i capelli di Barack Obama: giorni terribili per il presidente americano. Fuori dal governo il ministro della Giustizia per scarso rendimento, licenziato con una gelida stretta di mano quello della Difesa, sullo sfondo la vulnerabile guerra all’Isis, caffè solo amarissimi dopo il risultato del voto di Medio Termine, duelli infiniti con il Parlamento strappato del tutto ai democratici. E adesso lo sguardo spaventato sul Paese in fiamme, che ignora le sue invocazioni alla calma, che sembra lasciar cadere nel fumo dei lacrimogeni le esortazioni al rispetto del verdetto, contestato come un’arrogante sfida alla verità.



«Siamo una nazione fondata sul rispetto della legge: fare del male agli altri, dice il presidente rammentando le parole del padre del ragazzo ucciso, non è la risposta giusta. La morte di Michael deve rendere la nostra comunità migliore». Poi l’appello alla polizia: moderazione. Sepolto dalla guerriglia. È evidente che Obama avvalendosi del dolore della famiglia del ragazzo (“devastata”) cerca di tamponare l’urto della rivolta ma appare in un impasse di sconvolgenti proporzioni: ammette che i fuochi di Ferguson «ricordano problemi più ampi» e che «in troppe parti del Paese esiste una profonda sfiducia tra le forze dell’ordine e le comunità di colore, in alcuni casi come risultato dell’eredità della discriminazione razziale nel nostro Paese». Parole di piombo, ammissioni assai costose per il primo presidente di colore alle quali vanno aggiunte quelle dell’Alto Commissario per i diritti Umani dell’Onu Zeid Raad Al Hussein. L’Alto Commissario commenta il numero (sproporzionato) di afro-americani nel braccio della morte e rappresenta la profonda sfiducia in una parte della popolazione, per questioni legate alla razza e dunque all’applicazione della legge. La vita difficile anche per la polizia in certi contesti, specie extraurbani, produce sconfinamenti vistosi e pericolosi nella corretta applicazione della legge. E va anche detto che la capillare diffusione delle armi, ci manca poco che si possano acquistare al bar con il caffè macchiato, determina un clima di sospettosità diffusa: si spara all’impazzata, dall’una e dall’altra parte, in una guerra non dichiarata ma da sempre in atto. Non sarà facile spegnere quest’ondata di guerriglia proprio perché le ragioni che la determinano sono soltanto in parte contingenti: al fondo c’è la irrisolta questione razziale negli Usa, la mancata integrazione delle diverse etnie, le incolmabili, storiche disuguaglianze. Benzina su quest’immane incendio. Tanto è profondo il disagio che perfino il ministro francese della Giustizia Christiane Taubira, originaria della Guyana francese, allunga lo sguardo su un paese alleato sferzandolo con la citazione di Bob Marley: «Uccideteli da piccoli» , mentre Rihanna, star mondiale scrive: «Giustizia per…lascio in bianco…perché questo cartello mi servirà anche l’anno prossimo». Attenti anche da noi, il razzismo è ad alto tasso di contagio.