La Ue deve aprire le porte alla Turchia

di Fabio Nicolucci
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Sabato 10 Ottobre 2015, 23:56 - Ultimo aggiornamento: 11 Ottobre, 00:14
L’attentato kamikaze che ad Ankara ha lasciato sul terreno quasi cento morti e 400 feriti tra i manifestanti per la pace tra Stato turco e curdi è il più grave da decenni. Ma non è isolato. Dalle elezioni politiche del 7 giugno scorso, che avevano visto la vittoria politica delle istanze della negletta nazione curda, vinte dal partito filocurdo Hdp organizzatore della manifestazione falcidiata ieri, è il terzo. Abbastanza, sia per la ripetizione sia per le dimensioni, da avvicinare Ankara sempre più a Baghdad.

Quando infatti i morti del terrorismo interno si contano nelle unità, ad essere messo in questione è l’assetto politico, ma quando si contano nelle decine in questione diventa piuttosto l’assetto e dunque l’unità dello Stato. E così del resto Erdogan ha impostato la campagna per le nuove elezioni politiche del prossimo 1 novembre, che nei suoi disegni dovrebbe dargli finalmente la maggioranza parlamentare necessaria per disegnare la sua nuova Turchia, grandiosa e potente, che da qualche anno ha in mente. L’idea di questa nuova Turchia, dove potenza regionale e autoritarismo interno si mischiano in un indigesto mix, non è un disegno del primo Erdogan, quello che vince il suo primo mandato da premier nel 2003. Dove è portatore di un riequilibro, seppur in inizialmente blanda salsa islamica, tra potere civile e militare. È piuttosto un frutto del suo successo, da cui nasce poi un istinto autoritario, ma soprattutto del successivo catastrofico fallimento dell’idea di Turchia nel mondo che avrebbe dovuto sostenerlo. La proposta con cui Erdogan premier riorienta infatti la sua politica estera è il “neo-ottomanesimo” - cioè il recupero delle radici imperiali e regionali della Turchia - articolato dal professor Ahmet Davutoglu, che nel 2009 diventa ministro degli Esteri, ed oggi è il premier in coppia con Erdogan Presidente della repubblica.

Questo “neo-ottomanesimo” è una rottura profonda con il cinquantennale orientamento atlantico e filoeuropeo precedente. Una rottura che certo nasce dalla fine della Guerra Fredda. Ma soprattutto da una impossibilità a praticare l’altra strada, quella di diventare compiutamente occidentali ed europei. Una impossibilità di cui si prende atto dopo l’umiliante serie di pantomime a cui l’Unione Europea, incerta se dire sì perché incerta della propria identità profonda, ha sottoposto la Turchia sin dall’instaurazione delle relazioni particolari nel 1963, e poi dalla domanda di adesione che risale addirittura al 1987. Nel nuovo medioriente che nasce dall’intervento angloamericano del 2003, Erdogan si posiziona dunque come attore regionale. E per rilanciare il proprio paese pratica una politica di intromissione e di potenza. L’attuale crollo dello status quo, simboleggiato prima dalle cosiddette “primavere arabe” e poi dalle successive reazioni termidoriane e dalle guerre civili e poi regionali, coglie la Turchia in controtempo. Vengono a mancare gli interlocutori riformisti e statuali - la crisi dei rapporti con Israele a seguito dell’incidente della Marmara nel 2010 ne è emblema - e ne nascono di impresentabili come l’Isis. Il medioriente cambia, in peggio. E quella politica diventa prima un freno esterno e poi uno interno. Perché il gioco è irrimediabilmente cambiato, anche se i soggetti - gli Stati - apparentemente sono gli stessi. Essi non competono più fra loro, bensì contro quelle forze che stanno cercando di costruire un nuovo medioriente jihadista spaccando e frammentando proprio gli Stati esistenti.

La Turchia si trova così a sostenere l’Isis, che però ha il disegno di spaccare gli Stati (Kasr al-Hudùd, in arabo), e che combatte le forze curde per esempio a Kobane, forgiando così nel fuoco della battaglia quella nazione curda e la sua legittimità che con tanto sforzo Erdogan si applica, con ogni mezzo, a tenere ai margini. Un paradosso sempre più paralizzante. Soprattutto adesso che l’intervento russo pone paletti e parametri che ingessano la Turchia e cambiano tutto il quadro. Se però Erdogan si è cacciato in un vicolo cieco, ciò è affare di tutta l’Europa. Si pongano allora da parte freni e timidezze, e si chiami a gran voce la Turchia a girarsi. A non guardare più a Baghdad bensì a Bruxelles. Occorre un gesto come quello della Merkel dopo la morte del piccolo Aylan. Dichiarando ora o mai più che le nostre porte si aprono, senza condizioni, alla nuova Turchia, finché è ancora democratica.

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