Ucraina, l'Est sceglie la secessione: plebiscito con il 96% dei sì. La rabbia di Kiev

Carro armato con la bandiera russa a Sloviansk
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Lunedì 12 Maggio 2014, 07:38 - Ultimo aggiornamento: 13 Maggio, 12:37
un plebiscito annunciato il controverso referendum indipendentista nelle regioni russofone dell'Ucraina orientale di Donetsk e Lugansk, organizzato anche tra le barricate dai secessionisti filorussi, in contrapposizione a quelli che definiscono i fascisti di Kiev usciti dalla rivoluzione filo-occidentale del Maidan. Lo conferma il risultato annunciato oggi: il 95,98% ha votato sì all'indipendenza della autoproclamata repubblica di Lugansk, in Ucraina orientale. Il dato è stato comunicato dal vice presidente della commissione elettorale Oleksandr Malykhyn.



Ma lo lasciava presagire anche l'alta affluenza (oltre il 70% a metà pomeriggio) dichiarata dai separatisti del ricco bacino metallurgico-minerario del Donbass, che vale il 20% del pil nazionale. Un voto che per l'Occidente è «illegale», come ha ribadito in serata anche la portavoce del capo della diplomazia europea Catherine Ashton, che il presidente francese Francois Hollande ha bollato come «nullo e non valido» e che gli Usa hanno condannato fin dalla vigilia con parole durissime.



Ma soprattutto un voto che per Kiev è una «farsa criminale ispirata, organizzata e finanziata dal Cremlino», come ha denunciato il ministero degli esteri. Sullo sfondo, rispettivamente, le speranze e i timori che la Russia lo possa utilizzare come pretesto per una ulteriore annessione in stile Crimea o per riconoscere un'altra repubblica secessionista, come l'Ossezia del sud e l'Abkazia in Georgia. O la Transnistria in Moldova, le cui autorità hanno sequestrato al vicepremier russo Dmitri Rogozin, in partenza da Chisinau, una petizione che chiede

a Mosca una un abbraccio analogo a quello della Crimea.



Uno scenario nel quale va segnalato il mutato atteggiamento dell'oligarca Rinat Akhmetov, l'uomo più ricco del Paese, il re del Donbass e il patron del club calcistico dello Shaktar Donetsk, che proprio ieri ha conquistato il suo nono titolo nazionale: Metinvest, la holding del magnate ex finanziatore del deposto presidente Ianukovich, ha chiesto a Kiev di non usare l'esercito contro il «pacifico Donbass», ma d'ascoltarne la voce, annunciando addirittura «brigate di volontari» tra i propri dipendenti «per mantenere l'ordine assieme alla polizia municipale a Mariupol», secondo centro della regione teatro il 9 maggio di un sanguinoso blitz delle forze ucraine. La città dove ieri - mentre spuntava il giallo del presunto rapimento del deputato nazionalista radicale e candidato presidenziale Oleg Liashko - è stato ritrovato impiccato il capo della polizia, Valeri Androshchuk, morto in circostanze controverse: forse ucciso dalla vendetta della gente, forse suicida per rimorso.



Una scelta di campo, quella di Akhmetov, che potrebbe dare la spallata decisiva alla secessione, tanto che il capo dell'amministrazione presidenziale Serghiei Pashinski, pur escludendo al momento che Akhmetov sia tra i finanziatori della rivolta, lo ha sollecitato a «ritornare alle sue precedenti dichiarazioni a favore di un'Ucraina unita e indipendente» perché la sua richiesta rischia di «diffondere l'infezione attraverso tutto il Paese».



Il voto si è svolto in un clima di relativa calma in circa 3000 seggi per circa 5 milioni di elettori (3,2 nella regione di Donetsk, 1,8 in quella di Lugansk), a volte in seggi desolatamente semivuoti, a volte invece con lunghe code, come a Mariupol (dove però c'erano solo otto sedi per mezzo milione di abitanti) o tra le barricate di Sloviansk, roccaforte della rivolta circondata dall'esercito e nelle cui vicinanze si sono udite numerose e forti detonazioni nella mattinata e in serata.



A Svatove, cittadina di 20 mila abitanti nella regione di Lugansk, a 50 km dal confine russo, il sindaco Ievgheni Ribalko si è invece coraggiosamente rifiutato di organizzare la consultazione dicendo per due volte 'niet' ad alcune decine di uomini armati che avevano tentato di convincerlo del contrario. «Il mio dovere è di fare rispettare la legge ucraina. La popolazione deve esprimere la sua opinione in un quadro legale. Non è il caso di questo referendum», ha spiegato, forte del sostegno dei suoi cittadini.



Impossibile verificare la reale affluenza di una consultazione senza osservatori indipendenti o internazionali, svoltasi peraltro con il coprifuoco o «clandestinamente» in alcune località assediate. E turbata qua e là dai blitz della Guardia nazionale ucraina per impedire la consegna delle schede o per sequestrarle: a Krasnoarmeisk è stato ucciso anche un civile.



Singoli episodi di irregolarità sono stati segnalati da alcuni dei 500 giornalisti stranieri sguinzagliati nell'area, come il voto multiplo in più seggi o con il passaporto di altre persone, oppure pacchi di schede già votate. La consultazione, di trasparente, sembra avere in ogni modo solo le urne: le liste degli aventi diritto sono quelle del 2012 (Kiev ha bloccato i database), le commissioni elettorali sono a senso unico.



Ma le migliaia di persone che comunque sono andate ai seggi non si sono posti problemi di legittimità. «È un modo per far sentire la voce del Donbass contro i fascisti di Kiev, ormai è troppo tardi per tornare indietro», concordano tutti, convinti che «peggio non sarà», in un voto dove si mescolano orgoglio, speranze, rancori.



Ma Per Kiev e l'Occidente, che minaccia Mosca di nuove sanzioni, l'unico voto che conta è quello delle prossime presidenziali del 25 maggio, dopo le quali il vincitore dovrà convocare anche nuove elezioni legislative, come ha annunciato il candidato favorito: un altro oligarca, Petro Poroshenko.