Il referendum in Scozia e gli effetti sull'Europa

di Francesco Grillo
3 Minuti di Lettura
Venerdì 19 Settembre 2014, 00:38 - Ultimo aggiornamento: 08:02
Gli scozzesi stanno facendo la storia, chiunque vinca. Dell’Inghilterra e del resto del mondo. Eccola la scommessa degli eredi di William Wallace. Quello che non molti fuori dall’Inghilterra sanno è che, infatti, il Regno Unito nasce come un’acquisizione della Scozia sul resto del Regno. Era il 1603 e la grande Regina Elisabetta (quella di Shakespeare) muore senza eredi: il trono viene acquisito da Giacomo sesto, sovrano di Scozia, che governa su entrambe le nazioni con nomi diversi. Gli ultimi due presidenti del consiglio - Tony Blair e Gordon Brown - sono scozzesi.



E a guadagnarci dall’Unione sono, certamente, i sudditi con il kilt per i quali lo Stato spende a testa - un po’ come l'Italia con il Trentino - ogni anno millecinquecento sterline in più degli altri. Certo qualche differenza la fa il petrolio del Nord oggi solo virtualmente in mano alla Scozia: ma il petrolio non è un business del futuro, il prezzo è volatile e le maggiori entrate - stimate in 4 miliardi di sterline - sarebbero insufficienti per pagare il costo di un welfare che oggi è finanziato da Londra.



Nel breve periodo è probabile che converrebbe agli scozzesi - che già godono di ampie autonomie e di un parlamento - stare insieme agli inglesi. Intanto, il Regno Unito uscirebbe dalla prova rafforzato: avrebbe dato una lezione a tutti per aver dimostrato cosa vuol dire essere democratici assumendosene i rischi fino in fondo.



Se lo strappo venisse bocciato, l’effetto sarebbe quello di blindare l’Unione per cinquanta anni e segnare - se Londra rispetta la promessa di maggiori concessioni - una battuta d’arresto per il partito indipendentista. Per gli indipendentisti di tutto il mondo una sconfitta di misura non sarebbe molto peggiore di una vittoria della secessione: catalani, veneti e ucraini dell’Est avrebbero argomenti solidi per chiedere di poter decidere, invocando quello che il capo del governo inglese ha solennemente promesso quando diede il via libera al referendum: «Questo Regno Unito non terrà mai più un Paese al suo interno senza il suo consenso».



In qualsiasi caso, questo referendum cambia per sempre - come argomenta James Naughty sul The Guardian di mercoledì scorso - il rapporto tra cittadini e politica. Dalla parte del fronte del Sì e del referendum ha spirato, in questi giorni, il vento del cambiamento, dell’aspettativa del cambiamento che riguarda tutto il mondo occidentale e lo dimostreranno tra qualche ora i dati sull’affluenza alle urne.



È vero che c’è la crisi economica, ma, soprattutto, molti cittadini sentono forte la crisi delle istituzioni democratiche. Del resto, la colpa più grave della classe dirigente che ha sviluppato il progetto europeo in questi ultimi decenni è stata quella di pensare che l’Europa è un’idea troppo complicata per poter essere spiegata ai cittadini europei. Ciò non significa che fioriranno dovunque referendum sull’Euro ma, certamente, sarà molto più difficile ignorare - come fu fatto per il voto dei francesi e degli olandesi sul trattato costituzionale dell’Unione - i segnali di disaffezione che proviene da una società che, dovunque in Occidente, sembra lontanissima dalla politica.