I musulmani del Kosovo che combattono l'integralismo: «C'è pericolo anche in Italia»

I musulmani del Kosovo che combattono l'integralismo: «C'è pericolo anche in Italia»
di Ebe Pierini
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Sabato 6 Settembre 2014, 21:03
Le sue labbra si schiudono in un sorriso sotto la folta barba rossiccia quando capisce che siamo giornalisti italiani. Davanti all’ingresso di una moschea di Mitrovica, la città del nord del Kosovo, nella quale convivono, rigorosamente separate dalla simbolica barricata di terra ed erba sull’Austerlitz bridge, l’anima albanese e quella serba, attende l’inizio della preghiera del pomeriggio.



Durante la guerra che ha martoriato il suo Paese è dovuto fuggire e ha trovato rifugio in un campo profughi in Albania. Di quell’esperienza ci dice di ricordare soprattutto l’accoglienza, la bontà e la disponibilità dei soldati italiani. Ma di politica, di estremismo islamico, di partenze di kosovari alla volta della Siria o dell’Iraq non vuole parlare. Quelli sono temi che può affrontare solo l’imam.



Anche il vice dell’imam sceglie di non rispondere alle domande. Segno che l’argomento è alquanto delicato così come delicata è la situazione internazionale. Quel che è certo è che la moschea di Mitrovica si riempie nelle ore dedicate alla preghiera e soprattutto il venerdì quando le mura non bastano ad ospitare la gente che si ammassa fuori dalla struttura. Ed è così anche nelle moschee di Pristina e di Pec, che gli albanesi chiamano Peja.



È di due giorni fa la notizia dell’arresto e del successivo rilascio dell’imam della moschea grande di Pristina, Shefqet Krasniqi, in quanto sospettato di favorire l’estremismo islamico. Solo il mese scorso sono state 40 le persone arrestate dalla polizia kosovara con l’accusa di intrattenere legami con organizzazioni estremiste islamiche attive nei conflitti in Iraq e Siria, come l'Isis e al-Nusra.



In Kosovo il 90% della popolazione è musulmana. A Peja, dove ha sede anche Villaggio Italia che ospita il contingente italiano in Kosovo, la cui struttura è costituita attualmente dai Lancieri di Montebello di Roma, puoi entrare nelle moschee anche se indossi una croce al collo e non hai il capo velato. Qui non fa differenza che tu sia cattolico, ortodosso, musulmano. Vieni accolto e rispettato.



Qui la maggioranza dei musulmani è moderata. Sono lontani nell’approccio e nella mentalità dagli integralisti che stanno seminando il terrore in Iraq e Siria. Ci tengono a ribadire che certi estremismi sono distanti anni luce dalla cultura albanese.



Eppure c’è anche il Kosovo nella lista nera dei Paesi che forniscono manovalanza all’Isis. Sarebbero tra 100 e 200 i giovani kosovari partiti per Siria a Iraq. Alcuni di loro hanno anche perso la vita nei conflitti in corso. Hanno fatto non poco scalpore le immagini del venticinquenne kosovaro Lavdrim Muhaxheri che decapitava un soldato siriano.



Il vecchio proprietario di una piccola libreria islamica in un vicolo di Peja conferma che è aumentata la vendita del Corano. Emir Gega, 35 anni, imam della moschea rossa di Peja racconta che il venerdì la struttura religiosa accoglie fino a 500 persone e che questo numero cresce di anno in anno tanto che occorrerà ampliarla.



«Non abbiamo mai invitato nessuno a partecipare ai conflitti in quei Paesi – dice riferendosi ovviamente a Siria ed Iraq – Io, come imam, non ho mai motivato nessuno». Però poi ammette che ogni anno almeno una decina di persone partono per andare a studiare in Arabia Saudita e quando tornano le loro idee sono più radicali e si discostano dall’islamismo moderato proprio delle moschee cittadine.



Dovrebbe far riflettere il fatto che ben 4 moschee a Peja siano rette da un imam wahabita. E se la maggior parte degli imam scelgono di non esporsi c’è invece chi lo fa. Zuhdi Hajzeri, 30 anni, a capo della moschea Tahtali, accetta di incontrarci in un bar, all’interno di un affollatissimo centro commerciale.



Indosso ha una giacca pesante e molto larga. Magrissimo ed indifeso. Nelle scorse settimane, mentre di notte tornava dalla moschea, un uomo a bordo di un’auto, a luci spente, ha cercato di investirlo. Non è stato un incidente. Lo hanno confermato anche le forze di polizia kosovare. Volevano punirlo per le sue posizioni estremamente moderate e per una intervista da lui rilasciata alla tv kosovara RTK nella quale ha condannato apertamente certi estremismi.



Racconta di subire continuamente minacce. Lo chiamano in moschea e gli promettono che lo picchieranno. Ma lui dice di non aver paura. «Il 99,9% della comunità musulmana è con me – spiega – In quasi tutte le moschee del Kosovo c’è almeno un elemento che cerca di fare pressione sull’imam in modo che faccia prediche che vadano nella direzione del jihadismo. Secondo loro tutti coloro che non la pensano come loro non sono degni di vivere. A coloro che cercano di reclutare promettono dei premi in cielo. Jihad significa impegno, sforzo ma il significato di questa parola non va manipolato».



Per lui Islam non significa far coprire il volto di una donna però ammette che in questo periodo alcuni elementi stanno facendo pressioni perché gli imam spingano le donne a coprirsi. C’è chi offre 300 euro al mese a chi decide di indossare un velo e di aderire ad una visione più integralista della religione.



Insomma il rischio di una diffusione dell’estremismo in Kosovo anche alla luce della comprovata partecipazione di kosovari ai conflitti attualmente in corso e all’attestato reclutamento di persone da mandare a combattere in nome della religione, è reale. Ma esistono collegamenti con l’Italia?



È dei giorni scorsi lo scandalo dei visti turistici venduti, a metà del 2013, per 3.500 euro l’uno dall’ambasciata italiana di Pristina a musulmani kosovari risultati poi jihadisti. Tre i terroristi di cui si sa con certezza che sono giunti a Milano. Uno di loro si è poi fatto saltare in aria in Iraq. Gli altri due sono ricercati e potrebbero essere ancora in Italia.



«So che in Italia, in alcune moschee ci sono imam che hanno studiato in Arabia Saudita – conferma Hajzeri – So anche che uno di loro terrebbe lezioni di integralismo». Quanto basta per confermare che il nostro Paese non è indenne da certi pericoli e che potrebbe costituire una fucina per nuovi reclutamenti. Sui fronti caldi nei quali si combatte c’è quotidianamente bisogno di forze nuove e di rincalzi.
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