«Siamo un giornale. Non un ristorante, non un social network, non uno spazio culturale, non un set televisivo, non un bar, non un'incubatrice di start-up», si legge a tutta pagina in prima del quotidiano, tornato stamani in edicola dopo lo sciopero di giovedì. I lavoratori vogliono così difendere l'identità del giornale, fondato da Jean-Paul Sartre 40 anni fa e che oggi ha 290 dipendenti, contro il piano presentato ieri dagli imprenditori Bruno Ledoux, Edouard de Rothschild e dal gruppo italiano Ersel, come ultimo tentativo di far sopravvivere il quotidiano in profonda crisi, con vendite in caduta libera (-15% nel 2013), precipitate a novembre sotto quota 100 mila copie, il peggior dato da 15 anni. Ledoux, che detiene il 26% del giornale, ha dichiarato all'Afp che, se i dipendenti respingeranno il piano, «la posta in gioco è la morte».
Il progetto prevede il trasloco della sede dal cuore di Parigi e la richiesta al celebre designer Philippe Starck di trasformare i locali in uno spazio «interamente dedicato a Libèration e al suo universo», aperto a giornalisti, artisti, scrittori, filosofi, politici e architetti. Secondo il progetto, la sede accoglierà anche un set tv, uno studio radiofonico, una newsroom digitale, un ristorante e un bar. Nel piano però non c'è alcun cenno alla sorte della redazione.
In un articolo intitolato «I giorni neri di un quotidiano», i giornalisti denunciano quindi la volontà di «costruire una Libèland, un Libèmarket, un Libèwork. Un rombo rosso (il logo del giornale, ndr) senza nulla dietro: dieci lettere che non significano più granchè». «Un vero e proprio putsch degli azionisti contro Libèration, la sua storia, la sua squadra, i suoi valori», scrivono i redattori, sostenendo che l'intento degli editori è chiaro: «Libèration senza Libèration. Traslocare il giornale ma tenere il grazioso logo. Cacciare i giornalisti ma 'monetizzarè il marchio».
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