Lezione greca dimenticata, l’Europa pensa alla
supertassa

di Giulio Sapelli
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Martedì 28 Luglio 2015, 00:50 - Ultimo aggiornamento: 01:11
Il 25 Febbraio 2014 gli allora presidenti delle massime istituzioni europee, ossia Martin Schulz dell’Europarlamento, Josè Manuel Barroso della Commissione e il primo ministro greco Antonis Samaràs per il Consiglio, annunciavano in una conferenza stampa che Mario Monti era stato nominato presidente di un gruppo di gran livello incaricato di formulare proposte per le «nuove entrate dell’Unione» da inserire nella programmazione del bilancio pluriennale 2014-2020. Ricordiamo che le attuali entrate dell’Unione sono costituite da ciò che rimane delle entrate doganali, dalle quote dell’Iva e soprattutto dai contributi degli stati membri che raggiungono il 75% delle entrate complessive.

Già a quel tempo dalla Gran Bretagna giunsero voci assai preoccupate e negative. Il governo inglese si dichiarò contrario all’ipotesi di una tassa europea (erano i tempi delle discussioni sulla cosiddetta Tobin Tax, ossia sulla tassazione degli investimenti finanziari a breve termine). E il tema sembrò accantonato. Ecco invece che oggi risorge il problema della tassazione europea, insieme a una inusitata campagna di stampa per istituire una sorta di bilancio europeo svincolato da quello degli attuali Stati membri. Il fatto sconcertante è che quest’annuncio viene anticipato dalle pagine di Der Spiegel, il settimanale tedesco noto per il sostegno incondizionato che sinora ha dato alle politiche di austerità di matrice teutonica. A ciò si aggiunga che nei corridoi della tecnocrazia di Bruxelles da tempo si pensa alla possibilità di istituire un ministero dotato di un budget proprio autorizzato a riscuotere tasse in forma indipendente. Tanto fermento non può che giustificarsi con il fatto che il gruppo coordinato da Monti deve aver già elaborato delle ipotesi d’intervento, visto anche l’accresciuto attivismo del presidente Jean-Claude Juncker, che da sempre auspica un controllo congiunto sulle economie della moneta unica. Apprendiamo inoltre, sempre attraverso lo Spiegel, della posizione favorevole alla costituzione di un budget autonomo espressa dal ministro tedesco Wolfgang Schaüble, il falco dell’austerity, un budget da affidare a un ministro delle Finanze europeo nominato ad hoc. La questione si fa ancora più verosimilmente attuabile, se leggiamo le dichiarazioni che il democristiano tedesco Elmar Brok, famulo di Juncker, ha recentemente rilasciato e che sono, come cercherò di dimostrare dopo, a dir poco sconcertanti: per farla breve, la zona euro deve cominciare a ragionare su un’imposta autonoma. E lo sconcerto diventa stordimento, quando anche la stampa francese dà risalto alle dichiarazione del premier Hollande, secondo il quale l’unico modo per uscire dalla crisi europea è «un governo economico comune europeo».



Riassunta così la questione, passiamo ora alle riflessioni. La prima di queste è che la crisi greca non ha insegnato nulla a coloro che dominano le istituzioni europee. E mi riferisco ai tedeschi. Per la maggioranza del gruppo dirigente democristiano e socialdemocratico, la politica di dominio della Germania sull’Europa intera passa attraverso il pieno controllo di tutte le istituzioni europee, e questo pieno controllo può essere effettuato solo con l’istituzione di una Urstruktur, ossia di una superiore struttura di governo che condizioni tutti i subsistemi dell’oligarchia tecnocratica che governa l’Europa.



Quale migliore superstruttura di un nuovo ministero che avrebbe, rispetto a tutte le altre direzioni eurocratiche, un potere enorme perché si comporterebbe come una vera e propria autorità statuale dotata del secondo fattore fondamentale. Mi riferisco al monopolio dell’imposizione fiscale che fonda, come è noto, la configurazione statuale della modernità unendosi al monopolio della forza e al monopolio del battere moneta. Non è un caso che questa idea dell’Urministerium, ossia di un super ministero, è ventilata da anni da un vero genio politico eurocratico, ossia Mario Draghi che riesce a conservare la sua fedeltà atlantica agli Stati Uniti anche grazie alla distillazione di un’ideologia e di una pratica tecnocratica più di tutti gli altri ispirata a una filosofia federale dell’Europa.



Infatti ciò è proprio di una filosofia federale, ossia di una filosofia che si fonda sul superamento degli Stati nazionali, attraverso il loro scavalcamento oligarchico effettuato tramite la castrazione del parlamento europeo, che non ha nessun potere di compulsività delle leggi, ossia della loro attuazione se non passando per autonomie funzionali e quindi non elettive come la Commissione e il Consiglio.



Ma l’obiettivo di Draghi non è quello di Schäuble. Egli non vuole il dominio della Germania sull’Europa e proprio perché non lo vuole, pensa che il meccanismo di sottrazione della sovranità ideato da Schäuble e impersonificato come servomeccanismo da Monti, sarebbe il terreno migliore per contendere alla Germania il dominio sull’Europa facendo invece prevalere quello degli Stati Uniti. Si invererebbe, invece del confronto democratico, un confronto tecnocratico dei pesi e delle rilevanze economiche sociali e financo militari in tutta segretezza, come già del resto avviene per quanto riguarda il famoso trattato transatlantico commerciale tra Europa e Stati Uniti, le cui trattative sono segretissime e di cui nulla trapela.



Naturalmente Schäuble conosce gli obiettivi di Draghi, non a caso i suoi fedelissimi non perdono occasione per mettergli i bastoni fra le ruote. Lo stesso disegno di condizionamento tecnocratico, con certo minor vigore intellettuale, lo ha anche Hollande che però mette al posto degli Stati Uniti la sua Grande Francia.



Chi potrebbe scompigliare tutte queste carte è naturalmente Angela Merkel che dalla scuola tedesco-orientale e anche dall’Accademia delle Scienze è stata formata a comprendere il primato della politica. La cancelliera sa molto bene, come ha recentemente dimostrato la crisi greca e l’irrompere di una pericolosa democrazia referendaria, che non si può governare tecnocraticamente a lungo i popoli, soprattutto quando vengono bastonati facendo, come diceva Machiavelli, l’unica cosa che un potere non deve fare con i nemici: ferirli, invece di ucciderli.



Ebbene, chi può pensare che un aumento delle tasse, in qualsivoglia forma esso si presenti, non venga subito vissuto da tutti i popoli europei come una scandalosa e dolorosa ferita? Chi si prende la briga di convincere tedeschi e compagnia varia a pagar di tasca propria per quelle cicale dei popoli debitori, incapaci persino di raccogliere la loro spazzatura? E che dire poi dei popoli debitori che già adesso rinfacciano alla Germania di non aver pagato i cospicui debiti di guerra? Altro che la signora Le Pen e il signor Salvini et similia, altro che Podemos e Syriza.



Assisteremmo non a rivoluzioni ma a frantumazioni e disgregazioni sociali, assisteremmo a quello che il pensiero liberista radicale desidera, ossia lo sfiancamento della società. Ma questo sfiancamento avverrebbe tra lacrime e sangue, tra una separazione dell’economia dal sociale e dall’Urstaat, ossia dal superStato, da tutti i popoli europei. E pensare che un pensatore tedesco che ho molto amato nella mia giovinezza, ossia Otto Hintze, definiva lo Stato «un popolo unito da una comunità di destino». Otto Hintze si sta rivoltando nella tomba.

A questo punto sarà importante la posizione che, rispetto a queste pulsioni quantomeno discutibili, assumerà il governo italiano, dopo i recenti e ragionevoli annunci sulla necessità di abbassare il carico fiscale. Che cosa pensa l’ex premier Monti lo sappiamo già.