Iraq: storia di un simbolo. Da portatore di morte a speranza per un futuro diverso

Iraq: storia di un simbolo. Da portatore di morte a speranza per un futuro diverso
di Giulia Aubry
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Giovedì 7 Agosto 2014, 15:48 - Ultimo aggiornamento: 9 Agosto, 13:53
C’ in Iraq – un Paese che sta vivendo una delle sue pagine pi drammatiche - un’immagine nata per ripetere tristemente il passato e trasformata, invece, in quello che si vorrebbe potesse essere il futuro. Per chi ha scarsa dimestichezza con la lingua araba l’immagine sembra una specie di sorriso (o una U molto arrotondata) con un pallino poco sopra. Ma quel simbolo è una lettera dell’alfabeto arabo e racconta, oggi più che mai, una storia. Se dovessimo “tradurla” in italiano sarebbe la “n”, l’iniziale della parola “nazareno” che nel mondo arabo identifica i cristiani.



Nelle scorse settimane questo simbolo è comparso sulle porte di molte case di Mossul, città irachena che una volta era Ninive, la capitale assira citata anche nella Bibbia. Serviva, secondo quanto riportato dai giornali internazionali e rimbalzato nei social, agli uomini dello Stato Islamico dell'Iraq e del Levante, meglio conosciuto come ISIL o ISIS, per segnalare le case in cui vivevano (e il passato è d’obbligo, visto che molti non possono più viverci) i cristiani. Sulle porte o sui muri di queste abitazioni, con accanto la scritta in arabo che si potrebbe rendere con “immobile di proprietà dello Stato islamico”, questa grande N ricordava – e ricorda – un altro simbolo, distorto nel suo significato e utilizzato in maniera altrettanto terribile: la stella di David nei giorni più bui della Seconda Guerra Mondiale e della storia europea. Come allora, e come in tante altre occasioni, un’etichetta per identificare un nemico da perseguitare e distruggere.



Ma la forza della comunicazione (e dell’immaginazione) ha talvolta il potere di cambiare le cose, almeno in un ambito simbolico. Così quel segno si è trasformato in qualcosa di molto diverso da quanto voluto dagli uomini di ISIS. Qualcuno – presumibilmente un iracheno islamico di Mossul – lo ha dipinto sulla propria casa pur appartenendo a un’altra religione, e quell’immagine ha assunto un nuovo significato: “siamo tutti cristiani”.

Da quel muro l’immagine è rimbalzata sui social media, dapprima quelli di giovani iracheni – di ogni religione - che vivono ancora nel paese e poi in quelli di coloro che, per studio o lavoro, si sono trasferiti all’estero. In molti l’hanno adottata come immagine dei loro profili lanciando, contemporaneamente, l’hashtag #I_am_Iraqi_I_am_Christian che anima, proprio in queste ore, la discussione su Twitter. Qualche giorno dopo, in una chiesa cristiana caldea di Bagdad, un gruppo di cristiani e musulmani si è fatto fotografare con cartelli su cui facevano bella mostra l’hashtag e il simbolo, cantando assieme l’inno nazionale iracheno. La foto ha fatto il giro del mondo.

Dalia AlAqidi, giornalista musulmana del notiziario della TV irachena Sumaria che trasmette da Beirut, è apparsa in televisione con al collo una croce per solidarietà con gli Assiri e i Cristiani dell’Iraq. Come lei altre giornaliste medio orientali di religione islamica sono apparse sui teleschermi indossando magliette con la scritta “siamo tutti cristiani”.

In breve tempo il simbolo (stampato sulle magliette, su una bandiera o disegnato sul viso e sulle mani) è apparso nelle principali capitali europee e mondiali, durante le manifestazioni a supporto delle comunità cristiane irachene e contro la radicalizzazione e lo stato di terrore creato da ISIS. Contro ogni desiderio di quell’organizzazione che il mondo sta conoscendo come una delle principali minacce alla sicurezza a livello internazionale, un simbolo che doveva preannunciare morte, esilio e sofferenze si è trasformato nell’immagine dell’unità di quelle persone che, al di là dell’appartenenza religiosa, sentono di appartenere a una stessa nazione, di condividerne la lunga e, spesso, difficile storia. Non basterà a coloro che stanno morendo di fame, sete e caldo durante la loro fuga, ma qualcuno – in Iraq e nel mondo - sta raccogliendo il loro grido di dolore e la loro sofferenza.