Quest’Europa alla deriva sulla difesa dell’identità

di Giovanni Sabbatucci
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Lunedì 31 Agosto 2015, 23:54 - Ultimo aggiornamento: 1 Settembre, 00:30
Non sempre le crisi e le emergenze umanitarie hanno l’effetto di accrescere la solidarietà tra i Paesi che ne sono investiti (meno ancora tra le forze politiche che si confrontano all’interno dei singoli Paesi). È più facile, purtroppo, che avvenga il contrario, ovvero che le spinte a far da sé, a cercare ciascuno la propria speciale via d’uscita secondando gli umori presunti dei propri elettorati prevalgano, nelle classi dirigenti nazionali, sulla ricerca di soluzioni comuni di largo respiro.

L’atteggiamento di un’Europa mai così disunita di fronte al fenomeno dei migranti in fuga dalle guerre e dalle stragi ancor prima che dalla fame rappresenta in questo senso un caso da manuale. Che si tratti di una tragedia epocale è indubbio: mai, dai tempi delle persecuzioni razziali, degli spostamenti coatti di popolazione e degli stermini di massa che accompagnarono (e seguirono) il secondo conflitto mondiale, gli esodi erano stati così massicci, così prolungati nel tempo e così rischiosi per l’incolumità di chi li intraprendeva.

Tanto da rendere impraticabile - e non solo per motivi umanitari - qualsiasi soluzione basata sul puro e semplice contenimento del flusso dei profughi e sul loro respingimento verso luoghi di partenza sottratti per lo più al controllo di qualsiasi autorità statale riconosciuta. È ugualmente indubbio che la questione investe l’Europa nel suo insieme.



L’Europa in quanto meta naturale dei fuggiaschi dalla sponda sud del Mediterraneo (un mare che è tornato a essere, come ai tempi dell’antica Grecia, via di collegamento più che linea di separazione); e in quanto riferimento politico ed economico obbligato per i paesi di quella sponda.

Spettava dunque all’Europa – agli Stati membri come agli organismi comunitari – cercare e trovare assieme soluzioni che, fermo restando l’obbligo imprescindibile dell’accoglienza, ne regolassero le modalità e ne distribuissero gli oneri secondo un piano comune e condiviso. Così, evidentemente, non è stato. Le autorità europee hanno distribuito molti ammonimenti generici, ma non hanno agito con la necessaria tempestività di fronte al susseguirsi delle stragi di migranti. Un vertice straordinario dei ministri della Giustizia e degli Interni è stato appena convocato, ma per il 14 settembre, ossia fra due settimane (quando invece per l’emergenza finanziaria greca i leader dell’Unione si riunivano anche tutti i giorni). Quanto ai governi nazionali, si sono mossi per lo più tardi e in ordine sparso. Molti, almeno in una prima fase, non hanno resistito alla tentazione di scaricare il problema sugli Stati vicini o su quelli destinati dalla posizione geografica ai compiti di prima accoglienza (Italia e Grecia innanzitutto). Altri – Ungheria in testa – hanno cercato il consenso popolare erigendo muri o stendendo fili spinati.

Nelle ultime settimane era emerso qualche segnale positivo sul piano della condivisione. Le dichiarazioni forti della cancelliera Merkel che - correggendo finalmente il tiro - ha avuto il coraggio di sfidare i nazional-populisti di casa sua sul diritto di asilo ai rifugiati politici. E la convocazione, per quanto tardiva, del vertice “d’emergenza” di settembre. Ma proprio a questo punto, un segnale in direzione opposta è arrivato da una esponente di primo piano del governo britannico, la home secretary (ossia il ministro degli Interni) Theresa May, che ha impresso una brusca svolta al dibattito sui migranti prospettando un più stretto controllo degli ingressi nel Regno Unito anche per i cittadini dell’Unione europea in cerca di lavoro e di protezione sociale sotto le ali di un Welfare ancora generoso. Di fatto, la cancellazione degli accordi di Schengen, ma anche di uno dei principi-cardine della costruzione europea, quello che sancisce la libera circolazione della manodopera (oltre che delle merci e dei capitali) entro i confini dell’Unione. Stiamo parlando di un paese che, entro il 2017, si pronuncerà con un referendum sulla sua appartenenza all’Ue; e di un premier, David Cameron, che, nonostante la dichiarata fedeltà alla scelta europeista, chiede di rinegoziarla su punti non secondari.

Quella che ricomincia a prender corpo è dunque l’idea di un Europa a due o più velocità, anzi a geometria variabile: euro e non euro, Schengen e non Schengen, frontiere aperte o chiuse per gli extracomunitari, Gran Bretagna con qualche satellite e resto d’Europa. Difficile pensare che una costruzione macchinosa e delicata come quella dell’Ue, bisognosa di continue iniezioni di fiducia, costretta sempre a procedere per non cadere, possa sopravvivere a un simile processo di scomposizione. Non resta che sperare in un nuovo scatto di efficienza e insieme di solidarietà: del genere di quelli che, nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, permisero all’Unione di varare l’Euro e di aprirsi ai paesi dell’Est. Vi furono incertezze ed errori. Ma restare fermi sarebbe stato peggio.